Ieri Michela ci ha presi per mano e accompagnati nel suo primo giorno da volontaria. Il suo tempo personale è diventato il nostro. La sua ansia, la sua paura, la sua emozione le abbiamo provate anche noi. Il racconto continua…
Nel ricordo subito dopo è impresso un momento, in cui il tempo si è fermato e dilatato: Liliana, una delle OSS, mi dice “Forse non dovresti farlo tu, forse non oggi, ma ora ti spiego come fare”. Mi indica quella stanza, da cui Eufemia mi aveva tenuta lontana, e mi dice “Qui c’è un ragazzo giovane, quarant’anni con la moglie. Hanno un figlio di un mese”. Appena finisce queste parole una donna che stava pulendo il pavimento con la voce rotta dalla commozione guarda la porta chiusa e ci dice “È l’età di mio figlio. Ha un bimbo di un mese e una settimana. La moglie è bellissima, il figlio gli assomiglia così tanto”… Si ferma, sospira. “Ha un tumore al cervello”, mi dice Liliana, “vuole ogni volta il suo vassoio ma non può mangiare”. Mi indica i tubi che servono per nutrirlo, con un gesto delle braccia. “Se c’è la moglie o un altro parente chiamali e chiedi a loro. Vedrai che ti diranno di darli a loro, non a lui”. “E se è da solo?” “Daglielo”. Sentivo il cuore battere forte. Mentre ero da Sara mi dicevo che avrei potuto farcela, a stare accanto a qualcuno di più giovane. Era come se Liliana avesse ascoltato il mio pensiero, ma avevo paura. Sul foglio c’era scritto “no volontario”, mi ero immaginata che fosse stato lui a dire che non gradiva un volontario accanto a sé. Nella mia mente passavano immagini di volti scontrosi, di occhi che si giravano, di brevi espressioni di stizza. Avevo paura di sbagliare. Avevo paura e basta. La OSS accanto a me, immagino l’abbia percepito, mi ha guidato. Ha bussato lei per prima alla stanza, affacciandosi appena. L’ospite di Bucaneve (così lo hanno chiamato, solo dopo mi sono accorta di non sapere il suo nome) stava facendo la pipì. La OSS mi ha fatto segno di aspettare. Dopo è entrata, ha scherzato con lui, ho sentito tra le risa “Prego”. Non ero certa fosse rivolta a me. “Prego”. Diceva a me? “Prego. Non viene” e sorrideva. Sono entrata timidamente, mi sono messa davanti a lui con il vassoio. Mi hanno colpito il bianco del volto e il nero sotto gli occhi, un contrasto che così forte avevo visto solo in teatro, in situazioni in cui era voluto, cercato, un effetto di contrasto per la scena. La malattia… lo guardavo e mi domandavo se il tumore al cervello provoca confusione mentale, Liliana aveva fatto un gesto con le mani come a indicare confusione, forse. Non ricordo le parole, ricordo i nostri sguardi che sono rimasti fissi uno nell’altro, ricordo i miei pensieri “potrebbe essere qualcuno dei miei amici, dunque … a chi assomiglia, quei capelli …” forse erano pensieri che tenevano occupata la mente per distrarre il cuore dall’emozione fortissima che si stava aprendo come si spalanca una voragine nella terra secca. Ricordo di aver appoggiato il vassoio sul suo tavolino, mentre la OSS lo abbassava, lui aveva paura gli schiacciasse le mani, chissà se quel modo di parlare era legato alla malattia, chissà se era arrabbiato, chissà se la sua mente stava reagendo con la stessa velocità che avrebbe avuto se non fosse stato malato. Quanti pensieri placavano il grido che stava nascendo nel cuore! Ricordo di essere corsa a prendere il tovagliolo azzurro, ricordo il momento infinito in cui lo legavo attorno al suo collo, si è staccato, l’ho legato, chissà se andava fatto così. Lui non sembrava affatto infastidito. Gli ho domandato se aveva bisogno di qualcosa, ha guardato il contenuto di ogni piatto, ha fatto un gesto con la mano “no, basta così, puoi andare”. Sono uscita, i pensieri si erano fermati, o forse erano andati a sua moglie, al suo bimbo, un mese, alla sua vita erosa dalla malattia, come la terra lambita da un mare troppo prepotente per potergli far fronte. Le lacrime hanno iniziato a salire dal cuore, sono arrivate agli occhi, camminavo nel corridoio deserto, mi sono detta “forse possono uscire”, poi subito ho pensato ai parenti, quelle stesse persone che poco prima erano lì, infondo al corridoio. Non potevo farlo, sarebbe stato mancare loro di rispetto, no non potevo farlo. Ho respirato, sono entrata in cucina. Il microonde faceva ruotare i piatti, dovevo aspettare che si fermasse. Non riuscivo a stare ferma, da sola, in cucina. Sono uscita a chiedere a Liliana se dovevo proprio aspettare che si fermasse o se potevo anche aprire io lo sportello. Dovevo aspettare. Sono tornata in cucina. Le lacrime dentro di me piano piano si quietavano, il dolore diventava meno acuto. Respiravo, il cuore si espandeva, le emozioni fluivano. Continuavo a ingoiare lacrime ma riuscivo a sistemare i piatti, a porgere il vassoio, a entrare nelle stanze, aiutare le persone a servirsi, sorridere.
Liliana poi mi ha portato da un signore anziano, la vecchiaia e la malattia si erano mangiati i suoi denti, avevano contratto la sua pelle, teneva la bocca aperta e i grandi occhi azzurri spalancati. Liliana mi istruiva, dovevo stargli accanto per imboccarlo perché se mi fossi messa solo un pochino più avanti avrei rischiato che potesse rimettermi addosso. Mi ha insegnato a sentire quando deglutiva e quando il catarro gli impediva di farlo. Era importante fermarsi allora. Provare con l’acqua gel, quella è più sicura. Intanto gli accarezzava dolcemente la testa “amore”, “cucciolotto”, la mano passava sulla sua spalla, la voce era dolcissima e lo sguardo pieno di com-passione. Quando siamo uscite mi ha detto che l’importante è rimanere tranquilla. Se anche dovesse diventare tutto rosso, non respirare più, si agiterebbe solo se mi sentisse agitata. Mi dicevo che non avrei voluto rischiare, difficilmente credo sarei riuscita a rimanere calma dentro, magari esternamente avrei potuto tentare.
Il tempo era passato, non sapevo quanto, ma Eufemia mi ha detto che era ora di andare. Ricordo il percorso labirintico per uscire, non riconoscevo più i posti in cui passavamo, l’ascensore, la grande sala era più piccola, per fortuna c’era Eufemia accanto a me. “Non preoccuparti, poco per volta prenderai dimestichezza, capirai dove sono le cose, come si usano”. “Sì”, dicevo. E intanto pensavo che le difficoltà maggiori erano state le emozioni forti da gestire.