Il progetto per pazienti Cronici Complessi Fragili (CCF) è un progetto sperimentale di assistenza domiciliare. Nasce da una riflessione su tutti quei pazienti che non vivono un momento di terminalità, ma di malattia cronica e prova a rispondere all’esigenza di continuità assistenziale tra ospedale e territorio.
Uno degli obiettivi principali è quello di evitare che i pazienti debbano per forza accedere ai ricoveri ospedalieri – in emergenza – o debbano permanere troppo tempo in ospedale quando invece potrebbero essere assistiti al domicilio.
Inoltre, il progetto cerca anche di evitare l’isolamento di pazienti che sono più fragili per condizioni sociali. Per questo, gli assistenti sociali ricoprono una funzione importantissima nel progetto. Ne abbiamo parlato con Chiara Tagliabue, assistente sociale di VIDAS.
Perché parliamo di pazienti che hanno bisogni clinici e sanitari con una prospettiva più lunga rispetto ai pazienti che normalmente prende in cura VIDAS. Sono pazienti che non hanno bisogno di cure palliative – o non ancora, in ogni caso – ma che hanno bisogno di essere aiutati ad accedere a quei servizi sul territorio, oltre al nostro, che possono supportare la loro permanenza al domicilio. Sono pazienti che magari hanno bisogno di trovare all’interno delle loro famiglie nuove risorse per rispondere ai nuovi bisogni, che hanno ricadute più sulla dinamica sociale che sulla parte sanitaria. Il ruolo dell’assistente sociale è proprio quello di cercare di sostenerli, accoglierli in questi bisogni o evidenziarne altri e farglieli comprendere. Aiutiamo il paziente e la famiglia a cercare delle risposte e ad attivarsi per poter far fronte a tutte le nuove problematiche che la fragilità e la malattia comportano in quel momento.
In questo momento i pazienti ci vengono presentati da un reparto specifico dell’ospedale San Raffaele di Milano, quello di Medicina Interna, dove vengono selezionati sulla base di criteri e scale cliniche predefinite per il progetto CCF.
Una volta che mi è stato presentato il caso, come assistente sociale mi reco nel reparto dell’ospedale e incontro il paziente e i famigliari per un primo colloquio conoscitivo. Per me vuol dire essenzialmente spiegare che cos’è questo progetto e capire se loro sentono la necessità di avviare questo tipo di assistenza.
Il ruolo dell’assistente sociale in tutti i colloqui – anche in [Casa] VIDAS, ma a maggior ragione nei pazienti cronici complessi fragili – è quello di cercare di sentire il racconto, da parte del paziente e dei suoi famigliari, di quello che sta succedendo e di come loro leggono la maggiore fragilità del momento. Si tratta di capire se è cambiato qualcosa per loro, se ne sono consapevoli e come intendono affrontarlo. Questa è la premessa principale per poter cominciare a fornire aiuto e assistenza.
Se l’incontro ha esito positivo, raccolgo le informazioni e i documenti utili per avviare il servizio di assistenza. Dopo l’attivazione del servizio, mi interfaccio sempre con il medico l’infermiere, confrontandomi sulle successive visite e sull’evoluzione [della malattia del paziente]. A distanza di circa uno o due mesi fisso gli appuntamenti di verifica sull’andamento dell’assistenza, per valutare se quello che stiamo offrendo in modo sperimentale ha una ricaduta positiva o negativa.
In casi specifici, dove già all’interno del colloquio raccolgo dei bisogni e delle necessità concrete dal punto di vista sociale, mi attivo con l’avvio di servizi paralleli al nostro, come può essere l’attivazione del servizio di assistenza domiciliare puramente infermieristica o fisioterapica, e quindi mi interfaccio con le cooperative e le ATS che sono accreditate a svolgere questo servizio. Oppure attivo i servizi sociale del Comune.
Il mio compito è quello di facilitare i pazienti e le loro famiglie a raggiungere servizi che sono già esistenti ma dislocati sul territorio e a cui il paziente e la sua famiglia non riescono ad arrivare facilmente.
In generale il progetto viene ben accolto dalle persone a cui viene presentato. La possibilità di avere qualcuno che non li lasci da soli al domicilio una volta dimessi è quasi sempre accolta in modo positivo dai pazienti. Si può trovare una maggiore resistenza da parte di chi purtroppo vive una condizione di isolamento sociale da diverso tempo, che vede la continuità dell’assistenza un po’ come se fosse un’intrusione nella loro vita privata. In questi casi ci vuole più tempo per creare un vero e proprio rapporto di fiducia ed affidamento. Questa è una delle sfide del progetto: l’isolamento sociale non si risolve solo proponendo servizi e presentandosi a casa, ma si risolve – o perlomeno si prova a risolvere – con il tempo e cercando di creare insieme un rapporto di fiducia.
Se posso dire un caso in cui sento di aver fatto almeno una piccola differenza è quello di una signora – Yvonne – che è stata recentemente dimessa dall’ospedale. È successo alla fine dell’anno, quando abbiamo dovuto sospendere gli incontri di persona in ospedale per via della pandemia e effettuavamo i colloqui per via telefonica. Ho deciso comunque di effettuare un accesso al domicilio in avvio dell’assistenza, accompagnando il medico.
Nell’oretta di tempo che abbiamo avuto per chiacchierare mi ha raccontato che il suo ultimo ricovero era avvenuto un paio di mesi dopo la perdita del marito. La signora era stata sposata per più di 60 anni, aveva conosciuto suo marito a 15 e vissuto un’intera vita con lui. Era una di quelle relazioni molto forti, di due persone che si sono veramente sostenute a vicenda e passeggiato mano nella mano per tutta la vita, fino a quando suo marito è mancato – un po’ improvvisamente. Lei stessa riconosceva che il post lutto fosse stato un momento di tilt generale, sia dal punto di vista dei sentimenti e delle emozioni, sia purtroppo anche dal punto di vista fisico.
Era stata ricoverata per più di un mese, con una brutta polmonite, era molto debilitata ed era stata accolta dal figlio presso casa sua, quindi era anche un po’ “sballottata”. Tolta dalla sua dimensione di vita si sentiva un po’ di peso e dopo questa chiacchierata di un’ora, in un momento di silenzio, mi ha fatto un grande sorriso e mi ha detto che già incominciava a sentirsi meglio.
Secondo me questo racconto evidenzia il grande potere dell’ascolto: far sentire alle persone che sono considerate, che non sono sole, a volte gli permette veramente di ridurre il peso di alcuni malesseri, anche importanti, che le malattie si portano dietro.
Per me l’obiettivo di questo progetto dal punto di vista sociale è far sentire le persone meno sole, cercare di facilitare dei processi e cercare di togliere a loro il peso e la fatica di alcune azioni, che si possono coordinare meglio attraverso un servizio di assistenza professionale, che rende più lieve affrontare un percorso di malattia.
La disponibilità economica delle famiglie è uno degli elementi di valutazione per la presa in carico dei pazienti del progetto CCF. Con disponibilità economica intendiamo il tipo di risorse a disposizione per l’assistenza: se sono persone che hanno una famiglia, una propria sostenibilità economica e un appoggio economico anche da parte dei famigliari, sono persone che verosimilmente potranno mantenere più a lungo un aspetto di assistenza domiciliare. Se sono persone sole, che si devono sostentare da sole e magari vivono anche in un appartamento in affitto, più difficilmente nel momento di perdita di autonomia potranno appoggiarsi a un servizio di assistenza famigliare o appoggiarsi a qualcuno in grado di sopperire alla loro non autosufficienza.
Poter conoscere pazienti in un momento di cronicità e non nell’ultimissima fase della vita dà la possibilità di avere più tempo per costruire delle risposte anche ai bisogni economici. In questo momento VIDAS non ha a disposizione una parte di supporto economico per questo progetto, però ci sono servizi sociali comunali e statali che hanno a disposizione risorse da destinare a queste persone.
Spesso i pazienti si ritrovano ad essere non autosufficienti all’ultimo momento, dimessi dall’ospedale, e in poco tempo devono organizzare tutto. Spesso gli manca il tempo per arrivare a beneficiare di alcuni supporti che pure sono a disposizione. Poterli conoscere in un momento anticipato significa provare a costruire anche questi percorsi di assistenza
È una sfida. Essendo un progetto sperimentale, non è ancora definito in tutti i suoi aspetti né nelle modalità: è qualcosa che stiamo costruendo con questi primi pazienti. Ogni volta incontriamo pazienti diversi, con bisogni diversi, quindi definiamo in itinere quello che può essere il servizio di supporto.
È una sfida perché ci rimette in moto un pensiero di operazione diverso, ci fa tentare strade diverse, costruire su bisogni nuovi e anche perché ha cambiato la mia routine lavorativa. Per esempio, con i pazienti di cure palliative mi occupo in modo preponderante del primo colloquio di assistenza e poi di supportare i nostri operatori in piccole attività, ma sono attività già battute, già definite. Qui invece su ogni situazione devo attivarmi in modo diverso, anche in modo un po’ creativo e originale.
Resta comunque un punto fermo il nostro compito principale, quello di far capire che sta avvenendo un cambiamento.
Non siamo noi che assistiamo il paziente: il paziente e la famiglia vivono un momento di malattia per cui loro stessi sono protagonisti della loro assistenza. Forse la sfida più grande è questa: far capire alle persone che hanno bisogno di un aiuto che possono e che hanno al loro interno le risorse per affrontare questo momento.