Proseguiamo la riflessione sulla raffigurazione del dolore e sul cambiamento che subisce attraverso i secoli, alla ricerca di un parallelismo tra la sensibilità artistica e quella della società sulla percezione della sofferenza. Dopo aver visto in un post dedicato come nell’antichità classica si tendesse verso una rappresentazione eroica e drammatizzata ma sempre composta, passiamo ad analizzare un lungo periodo di tempo che va dal Medioevo all’Ottocento romantico. Lavorerò ancora una volta su ispirazione del già citato intervento di Ede Palmieri ai Seminari dedicati al tema del dolore, di cui trovate citati alcuni passaggi.
Nel Medioevo l’iconografia del dolore è ben rappresentata dall’evento drammatico per eccellenza nella nostra cultura: la morte del Cristo. Un esempio notevole è il “Compianto sul Cristo morto” (qui accanto) realizzato da Giotto nel ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova in cui sono presenti «gesti drammatici e bellissimi, i particolari degli angioletti che pregano, ma tutto è un po’ plasticato, convenzionale, pure se immagini molto nuove da un punto di vista iconografico».
Lo stesso tema è presente anche nel soggetto iconografico della “Pietà” – che si diffonde a partire dal XIV secolo, trovando le origini nel Vesperbild tedesco e il suo migliore interprete in Giovanni Bellini – e nella disperazione drammatica e plateale della Maddalena nella “Crocefissione“ di Masaccio «una donna senza volto, solo un mantello rosso e una chioma bionda. E poi i grandi compianti, nelle opere in legno e terracotta, del Mazzonis e del de Fondulis che riescono a suggerire il dolore con volti accorati, soprattutto quello della Madonna, ma che restano comunque eccezioni».
C’è poi la rappresentazione del dolore fisico ad opera dei grandi maestri dei supplizi, il cui esempio più evidente sono le opere che ritraggono San Sebastiano come quella di Antonello da Messina: l’espressione del Santo non esprime sofferenza, semmai una pacata rassegnazione al martirio.
Per passare a un dolore espresso, cioè a una sofferenza, bisogna arrivare al Romanticismo. L’uomo comincia a guardarsi dentro, a mettere in sintonia, o comunque a paragonare, i propri stati d’animo con il paesaggio e a esprimere questo sentimento.
Pittori come Friedrich iniziano ad esprimere nelle loro opere la maliconia, il male di vivere, avvalendosi degli strumenti dell’espressionismo tedesco, come gli alberi nodosi, per dare il significato di dolore interiore. Ma è solo con opere come i cosiddetti ritratti di alienati del pittore francese Géricault che si inizia a «scalfire quell’immagine per cui l’effigiato doveva essere sempre al meglio della forma, con il suo abito migliore, con piglio deciso» e si dipinge anche il momento della malattia con le sue ripercussioni sulla persona. Ma la sofferenza non è ravvisabile solo nelle espressioni, come dimostra “Il bacio” di Hayez (qui accanto) nel quale si può leggere una storia.
Il bacio è tenero e appassionato. Lui però è in abiti da viaggio, con un mantello e un cappello in testa, quindi una divisa, e il piede sul gradino perchè è in procinto di partire. Un bacio quindi, ma anche un abbandono, un addio, una separazione. Il quadro è luminoso però trasmette tutto il dolore della lacerazione della coppia di innamorati costretta a dividersi.
Sofferenza fisica e psichica, due facce della stessa medaglia. Ma sarà soprattutto il dolore interiore a caratterizzare l’arte dell’ultima metà del secolo: una tendenza che analizzeremo nel prossimo post.