Vi ho già raccontato qui come i venti di guerra del primo conflitto mondiale riportarono gli artisti alla dura realtà dopo la sfolgorante parentesi della Belle Epoque. Già nel primo decennio del Novecento le avanguardie artistiche esplodono fragorosamente, rompendo ogni convenzione di rappresentazione naturalistica attraverso l’uso distorto del colore e della forma.
Già nel 1897 un pittore come il belga James Ensor nel suo “Le maschere e la Morte” trasfigurava la sofferenza dell’uomo attraverso rappresentazioni grottesche attorno alla morte raffigurata da uno spaventoso teschio. Tuttavia, citando le parole di Hermann Bahr a proposito degli anni Dieci
Mai vi fu epoca più sconvolta dalla disperazione e dall’orrore della morte. L’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre: è l’espressionismo.
Pienamente rappresentativa di questo grido di dolore del proprio tempo è l’arte di quest’epoca di Emil Nolde. Inizialmente ispirato dall’arte egizia, da Goya e dal suo stile grottesco nonché dai più contemporanei impressionisti, il suo stile evolve ispirandosi per i colori, sempre più intensi, a Gaugin e Munch, e per il carattere drammatico delle opere – accentuato anche dalla sua malattia – alla pittura di Van Gogh ed Ensor. Il suo capolavoro, “La vita di Cristo” (datato 1911-12), fu definita da un critico il risultato artistico di un “malato”.
Le tele di Nolde in realtà miravano a far trasparire dai contenuti un’azione di denuncia sociale, utilizzando come tutti gli artisti Espressionisti gli “occhi dell’anima” per leggere la realtà. Non è un caso che proprio le opere di questo movimento sono le più presenti tra quelle bollate dal Nazismo come “arte degenerata“, in quanto rifletteva valori o estetiche contrarie agli ideali di purezza e bellezza della razza ariana. Vietato rappresentare la sofferenza emotiva.