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05.06.2023  |  Aggiornamenti

Cure palliative come snodo di un welfare dal basso

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La riflessione che Giada Lonati ha presentato nella tavola rotonda “Spazio etico e welfare di comunità”, al Congresso SICP, ipotizza una nuova visione di ‘comunità’ capace di ripensare la relazione con la malattia e la morte

di Giada Lonati

Tra le tante evidenze consegnateci dagli ultimi tre anni di crisi economica, sanitaria e sociale determinata dalla pandemia, quella da cui vorrei partire è la crisi del ‘welfare state e la necessità di superarlo. Per quanto resti un  punto di riferimento fondamentale per garantire l’universalità dei livelli di assistenza sociale e la gratuità delle prestazioni essenziali ai meno abbienti, la pandemia ci ha mostrato come l’intervento pubblico nella costruzione delle politiche sociali non sia sempre in grado di sostenere la crescita dei livelli di spesa e le attese di assistenza sociale.

D’altro canto, è interessante notare come emerga l’esigenza di costruire nuovi e più inclusivi modelli di assistenza lavorando verso un ‘responsive state’, capace di connettere le strutture istituzionali con le più minute situazioni sociali ed esistenziali bisognose di attenzione e tutela. Accanto al welfare state di natura pubblica, si può immaginare un welfare di comunità come insieme di politiche sociali garantite da soggetti non-pubblici, come imprese, parti sociali, organizzazioni del Terzo Settore.

Se si dice comunità un insieme di individui uniti da legami di sangue, luogo, amicizia e che formano un gruppo riconoscibile per vincoli organizzativi, linguistici, religiosi, economici e da interessi comuni, l’idea è che facendo leva sulle risorse – economiche, di tempo, di cura, di competenza – proprie delle famiglie e delle comunità, e mettendole in dialogo tra loro, si possa produrre qualcosa più della somma dei singoli elementi.

Poiché parliamo di beni e servizi che, se scambiati, diventano beni relazionali, cioè hanno un valore in grado di modificare la relazione tra i soggetti convolti, attivando nuove forme di fiducia, reciprocità, responsabilità condivisa.

Se accettiamo questa seconda genesi delle politiche sociali, come realizzabili a partire dalla comunità e al di là dell’intervento pubblico, allora le cure palliative possono essere il terreno giusto per ripensare il modo in cui viviamo, collettivamente, malattia e salute, nascita e morte. Ma andiamo per ordine.

In questo modello di welfare di comunità, la medicina si sente naturalmente chiamata in causa per il suo valore sociale, nella misura in cui prima di essere un sapere è un rapporto, un dialogo tra due singolarità, quella del curante e quella del curato, che gioca la centralità del suo ruolo nell’oscillazione tra l’esigenza di universalizzare e il bisogno di personalizzare.

Le cure palliative, in particolare, rappresentano un terreno elettivo per questo esercizio, nella misura in cui fondano il loro intervento su un più o meno esplicito riconoscimento che siamo simili, interconnessi e interdipendenti. Unendo a questo l’evidenza che il dolore è multidimensionale, il paradigma della cura cambia e, al suo interno, la comunicazione assume un ruolo centrale, per la capacità di essere efficace ed essenziale – ovvero di sapersi riferire all’essenza delle cose.

A maggior ragione perché l’aspettativa di vita aumenta ma non proporzionalmente quella di vita sana – ci attendono mediamente dieci anni in cui convivere con problemi di salute – e viviamo in una società in cui le disparità geografiche, sociali, economiche, culturali e di genere sono ancora molto presenti, servono modelli che riscattino la morte dall’invisibilità cui l’abbiamo relegata, trasformandola da evento umano complesso a malattia, spesso per puro desiderio di controllo.

Penso ai due estremi, da un lato i pro-life e dall’altro i difensori del diritto alla Morte Volontaria Medicalmente Assistita – e all’assenza di un’adeguata diffusione delle cure palliative, a cui accede solo il 14% della popolazione mondiale che ne avrebbe il diritto.

Bisogna recuperare la dimensione di privilegio che rappresenta l’accompagnare i morenti. Innanzitutto, per consentire una presa in carico a tempo debito, che valorizzi l’autodeterminazione del soggetto; quindi, per legittimare la possibilità di vivere l’esperienza del lutto come parte integrante della vita e, infine, per costruire comunità curanti dove il volontariato assolva un ruolo determinante.

Le cure palliative possono quindi contribuire a realizzare indispensabili connessioni tra comunità e specialisti della salute, dando impulso altresì alla diffusione culturale e alla ricerca partecipativa. In questa ottica, si può immaginare di dare vita a quelle compassionate cities che rappresentano lo spazio in cui riconoscere che malattia e salute, nascita e morte sono eventi normali e accadono ogni giorno e che la cura reciproca in tempo di crisi e di perdita è responsabilità di ciascuno di noi, in un impegno che esula dall’aspetto clinico per assumere una dimensione politica.

Questo articolo è stato tratto dal Notiziario VIDAS. Leggi l’ultimo cliccando QUI

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