“Mi chiamo Emanuela e da una decina d’anni mi occupo di cure palliative domiciliari, faccio parte di un’equipe di operatori specializzati che assistono persone con malattie inguaribili. È un universo meraviglioso in cui si entra come ospiti nelle case delle persone. Entrare nelle loro storie è sempre un privilegio, chiede di essere molto umili, molto silenziosi,” parla così Emanuela del suo lavoro e continua con molta consapevolezza.
“Affrontiamo un momento storico che per le famiglie è unico, enorme, che segnerà la loro esistenza. Poterci entrare e magari riuscire a fare qualcosa di bene è un onore, che va portato responsabilmente. Richiede di essere professionisti molto preparati, persone mature e persone gentili.”
Ma anche con le migliori premesse si sperimenta l’impotenza. “Non tutte le storie finiscono “bene”, non sempre si è le persone giuste al posto giusto: a volte c’è bisogno di qualcuno di più bravo, a volte di qualcuno di diverso,” spiega Emanuela. “Bisogna rimanere umili e avere in mente che possiamo fare il nostro ma non possiamo salvare – a tanti livelli – la vita a nessuno. L’autodeterminazione è uno dei principi etici fondamentali e significa anche lasciare l’altro libero di essere quello che è.”
Entrare in tante storie significa inevitabilmente incontrare tante persone.
“Ci sono famiglie spaventate dal nostro dal nostro ingresso – che viene spesso automaticamente associato alla morte – e poi ci sono le famiglie che ti inglobano, diventi parte della famiglia anche tu”.
Quando succede si crea una bella intesa, che ti arricchisce. È quanto racconta Emanuela del suo incontro con Marianna, caregiver di sua nonna, assistita VIDAS. “Ci siamo trovate” dice Emanuela. “Vedere il parallelismo del rapporto tra vita e morte incarnato in una persona e potersi confrontare con lei è stato bellissimo.” Marianna infatti è una doula, accompagna le mamme durante la gravidanza e nel post-parto.
“Morire a casa richiede un tempo e spesso io uso l’immagine del travaglio, dicendo che c’è un travaglio nella nascita e c’è un travaglio nella morte. Come durante la nascita chi è “fuori”, come ad esempio il papà, è preoccupato e non può fare niente e si sente inutile perché non può in alcun modo alleviare la sofferenza di chi sta partorendo, lo stesso succede nella morte. Perché non si può fare niente, diceva Chandra Candiani: ‘accompagnare chi muore significa imparare ad abitare l’inutilità’. Ed entrambi i travagli finiscono poi con una sorta di liberazione.”
Quello dell’infermiere palliativista è un lavoro complesso. “Sicuramente questo lavoro ti cambia – dice Emanuela – Ma mi ha anche sostenuta in questi anni nella mia vita privata. Fare un lavoro in cui credo così tanto e che mi dà così tante soddisfazioni mi dà molta forza nella vita quotidiana. Penso sempre che ne valga la pena, anche guardando i miei figli: vorrei che fosse un grande insegnamento per loro, che spendersi per gli altri, aiutarli, vale sempre la pena.”
Avere sempre a che fare con la morte non è facile ed è inevitabile domandarsi “ma è giusto?”. Però allo stesso tempo proprio da questo contatto nasce la cosa più bella, per Emanuela, della sua professione:
“Da questo lavoro mi porto una grande passione per la vita e l’istante presente, è una passione che va coltivata ma che solo quando hai in mente che la vita finisce capisci cosa vuol dire. Si dice infatti “che si nasce due volte” – la prima quando nasci e la seconda quando ti accorgi che devi morire.”
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