Offrire formazione per chi comunica, sulla carta stampata e in generale per i media, è stimolante. L’opportunità di accreditare i corsi progettati all’interno di VIDAS per i colleghi significa costruire un prezioso trait d’union tra palliativisti e giornalisti e rendere possibile l’incontro sul terreno dei valori, dell’etica, della deontologia professionale.
Indice
Raccontare il dolore e la malattia, non indietreggiare di fronte alla morte è in effetti darsi lo spazio per una riflessione critica, sospendere il giudizio e, al tempo stesso, mettere a nudo i pregiudizi, spesso sottesi al linguaggio mediatico e responsabili di una retorica poco ponderata ma suscettibile di modificare la percezione collettiva di fenomeni e avvenimenti.
Quest’anno abbiamo tenuto un corso di formazione sulla rappresentazione della malattia negli organi di informazione, dal titolo Come raccontare il dolore – Dobbiamo essere tutti guerrieri? di cui vi riportiamo i momenti principali.
Già caporedattore Ansa e corrispondente dagli Stati Uniti
Qual è il limite tra dovere di informazione e rispetto della persona? E come trattare e comunicare il dolore, quale l’approccio più corretto? Per evitare equivoci preciso subito: non lo so o, meglio, so che non c’è una formula valida sempre. È la sensibilità a imporre di affrontare ogni caso a sé, sorretti da tre parole-guida: decoro, pudore, rispetto. Se la malattia inguaribile fa spettacolo e la retorica del guerriero può essere ridondante, gratuita, fuorviante è il rispetto della volontà di chi soffre a distinguere tra buona e cattiva informazione.
Ho scelto quattro sportivi – la loro malattia è ancora più difficile da accettare, suona dissonante, fuori luogo – che incarnano altrettanti modelli di comunicazione.
Ordinario di filosofia morale all’Università degli Studi di Milano
«Dimmi il tuo rapporto col dolore e ti dirò chi sei».
Vorrei partire da questa affermazione di Ernst Jünger per avviare una riflessione sui nostri concetti di dolore e malattia, come individui e come società.
Nella rappresentazione collettiva assistiamo oggi a due fenomeni opposti. Da un lato, tanatofobia ovvero rimozione, occultamento della morte, oppure spettacolarizzazione che allontana la morte, di nuovo, dalla ‘normalità’, dalla città. Non appartiene alla sfera del familiare, del quotidiano, ma si proietta sul piano dell’eroico, in una logica prestazionale, del saperci fare e del potere di fare. Dolore e sofferenza mettono il malato nella condizione di avere ragione della malattia, sconfiggerla. L’ideale di una tale esistenza priva di dolore diventa quello di dare la morte alla morte.
Si dimentica che quel che rende insensato il dolore è la solitudine, che l’isolamento amplifica il dolore. L’alternativa alla logica prestazionale non è la rassegnazione, la rinuncia alla vita, ma la cura come ‘cura dell’altro’.
Il dolore che annuncia la morte e la anticipa richiama la nostra fragilità e dipendenza dall’altro. È una ferita che apre all’altro, che permette all’altro di entrare, gli dà di nuovo ospitalità. L’alternativa a una immagine bellica e prestazionale non è dunque l’acquiescenza rassegnata, ma la condivisione del dolore, la cura. Ovvero: la percezione della vita come dono e la voglia di vivere perché c’è l’altro, per amore dell’altro, nei due sensi del genitivo. Una vita senza dolore è nient’altro che una vita senza amore.
Professore associato di Medicina Interna all’Università degli studi di Milano
Apprezzo l’occasione di discutere qui quanto e come possa essere fuorviante la visione un po’ semplicistica di una guerra da vincere (e quante volte si sono usate analogie belliche durante la pandemia!). Così avremmo una battaglia che, se persa, lascia sul campo un solo sconfitto, il malato.
Ma la condivisione del dolore lo rende più accettabile?
La spettacolarizzazione della sofferenza di grandi personaggi non sembra contribuire molto a una maggior coscienza di quella che è una dimensione interiore, le persone famose sono lontane da noi e vissute come estranee, un po’ come ai tempi dell’antica Grecia gli dei dell’Olimpo avevano poco a che spartire con la vita dei comuni mortali.
Il web ci aiuta a comunicare meglio con i malati? Probabilmente, per molti aspetti della malattia sì, ma non per quelli più intimi e personali, laddove la resilienza può aiutare i pazienti a affrontare i momenti difficili, e i medici a fare un lavoro che li pone quotidianamente vicini alla sofferenza e al dolore.
Resta aggiornato sui nostri incontri formativi e professionali