I Corpi estranei è un film del 2013 di Mirko Locatelli, presentato al Festival Internazionale del Cinema di Roma e vincitore del Globo d’oro e di altri importanti riconoscimenti. Ad un primo superficiale sguardo si potrebbe considerare uno dei tanti film sulle malattie che la cinematografia ci ha proposto negli ultimi anni; un’analisi più profonda ci permette invece di considerarlo un lavoro necessario, perché mette lo spettatore nelle condizioni di non vedere più solo quel che succede ai personaggi, ma di guardarsi dentro mentre i loro percorsi si snodano.
Filippo Timi interpreta il ruolo di un uomo del sudche arriva a Milano per curare il suo piccolissimo bambino affetto da un tumore al cervello. Il resto della famiglia – moglie e un figlio più grande – è rimasto al sud e compare solo attraverso le telefonate al cellulare. L’ospedale è un mondo di dolore che ospita anche una famiglia nordafricana, con la quale il protagonista avrà degli scarni ma essenziali contatti.
A dispetto dei numerosi film che vengono prodotti e distribuiti sulle malattie, raramente il cinema ci mette autenticamente in contatto con dolore e paura. Il cancro è trattato da molti film, ma è rarissimo che l’esperienza proposta tolga le barriere dello spettacolo e della distanza. Commuoversi per un personaggio è diverso che venire scaraventati con gli occhi e con il cuore nelle proprie paure reali. Questo film è una rappresentazione del cinema per come dovrebbe essere sempre: quello che ferma la tua vita per due ore e ti ci rimette in contatto.
Il regista Mirko Locatelli riesce a immergere emotivamente gli spettatori in una vicenda di cui si sentono partecipi, perché sta davvero avvenendo davanti a loro, perché personaggi, situazioni e luoghi sono credibili, perché l’impressione è di essere dentro la trama e di con-dividere l’intimità e i pensieri profondi del protagonista.
Durante tutto il suo corso, “I corpi estranei” ci restituisce la bellezza della vita se proviamo a leggerla: piena di metafore e simboli che sono lì per noi, se solo vogliamo guardarli. Un uomo del sud senza soldi e una famiglia di immigrati nordafricani, tutti nella Milano d’avanguardia, tutti stranieri nella città degli altri. Perché il dolore ci rende estranei al mondo, allontana vicini e congiunti ed è spesso capace di creare il deserto.
Se da un lato il dolore per la malattia di un figlio allontana, rende orfani e mette in discussione gli equilibri solidi di una famiglia tradizionale, dall’altra parte è anche il sentimento che lega due “corpi estranei” e che fa nascere un’empatia tra persone di etnia, cultura ed età diverse. Saltano i pregiudizi e l’incontro con il dolore dell’altro ci rimette a noi stessi e quindi ci rimette al mondo. Un grande merito di questo film e di Mirko Locatelli è proprio di non dire mai niente sul dolore, di non pronunciare mai i sentimenti e le emozioni. Perché al cinema le cose non devono essere spiegate, devono accadere e basta. È un film concreto, semplice, diretto, difficilissimo. Abbiamo bisogno di storie vere ben raccontate e, se avremo il coraggio di non respingere e mistificare il dolore, potremo anche tornare ad essere – come diceva Paolo Grassi – “una comunità che si raccoglie attorno ad una storia”.