“Le mie giornate sono tutte uguali, sto a casa ed esco solo per lo stretto necessario. Le mie visite mediche, in effetti – perché invecchio anche io. Cerco di sopperire all’immobilità conservando la mente sana e equilibrata, con le mie ‘droghe’, come ripeto spesso. Le buone letture preservano l’equilibrio e permettono di avere prospettive per il futuro, la maglia, il cucito, i contatti con il resto del mondo, grazie al telefono. Solo di rado vedo qualcuno, in un bar o qui a casa”.
La signora Tina assiste da quasi dieci anni – tremilacinquecento giorni, giorno più giorno meno – il marito Orlando che, 76 anni e un Alzheimer in fase avanzata, è uno dei circa 440 mila over 75 non autosufficienti della Lombardia, dove gli ultrasessantacinquenni sono oltre due milioni e 300 mila, un cittadino su quattro.
Conosciamo lo scenario davanti a noi: la crescita esponenziale del numero di anziani richiede una riorganizzazione dei modelli di assistenza perché, fortunatamente, invecchiamo, sì, ma con malattie croniche che si sommano e aggravano i loro effetti.
Una risposta possibile è stata ipotizzata lo scorso agosto, quando Regione Lombardia ha deliberato la possibilità, per le organizzazioni di cure palliative, di prendere in carico malati cronici con un’aspettativa di vita ridotta. VIDAS lo ha fatto – rilanciando un modello testato, nel corso dei precedenti due anni, in via sperimentale.
Ermes Schiocchet, responsabile organizzativo del setting domiciliare, ci ha raccontato come sta funzionando. “Di circa 240 pazienti adulti in linea al domicilio, 60 hanno malattie non oncologiche e una grossa fetta corrisponde a ‘cronici complessi’, ovvero con più malattie compresenti e di lungo corso. In decisa crescita rispetto al 2023.”
L’intensità è più bassa, anzitutto. Se le cure palliative specialistiche prevedono almeno quattro visite, “accessi”, settimanali tra medico e infermiere e quelle di base almeno due, per questi pazienti possono essere quattro al mese complessivi. Abbiamo in carico un numero più alto di pazienti con quadri clinici molto diversi: cardiopatie, pneumopatie, neuropatie, nefropatie, con andamenti molto diversi rispetto a quelli a cui siamo abituati con le malattie oncologiche. Non abbiamo ancora dati precisi ma la percezione è che i percorsi di cura si siano allungati, avendo in carico un numero più alto di persone con sopravvivenza più lunga [la durata assistenziale media per gli adulti nel 2023 è stata di 42 giorni anche se il 65% delle persone muore entro i primi 28 giorni dalla presa in carico, ndr].
Monitorando le crisi, inevitabili, per evitare ricoveri in urgenza che atterrano sul pronto soccorso, secondo uno schema di “accesso improprio”. Si affiancano pazienti e caregiver perché gli episodi acuti vengano riconosciuti tempestivamente e, man mano che le capacità fisiche e psichiche vengono meno, in una traiettoria di peggioramento irreversibile, vengano prese le decisioni più coerenti, condivise con gli specialisti che spesso li seguono già.
Direi di sì. Le cure palliative comportano la presa in carico multidimensionale di un’intera famiglia alla quale vengono messi a disposizione non solo una serie di dispositivi, ausili e presidi medici, e consegnati farmaci, direttamente a domicilio, ma le competenze di un’intera équipe: medico, infermiere, assistente sociale, operatore dell’igiene, fisioterapista, psicologo, logopedista, assistente spirituale e, non ultimo, il volontario
Tina e Orlando sono una delle coppie caregiver-paziente di cronici complessi a cui allude Ermes. Alla domanda sui benefici che lei e il marito abbiano ricevuto, Tina risponde con slancio che VIDAS “ha allungato la vita a mio marito e anche a me perché se sta bene lui sto bene anch’io”.
“Mi dà un sollievo inesprimibile sapere che VIDAS gestirà anche il nostro futuro e, se ci saranno problemi, sarà al mio fianco per risolverli. Posso godere del presente, vivere l’oggi, ed è un dono, e proiettarmi nel futuro con fiducia – il massimo che si possa chiedere”.
Secondo Giada Lonati, medico palliativista e direttrice sociosanitaria VIDAS, la medicina palliativa esprime due vantaggi forti: è “preventiva e continuativa. In effetti, solo le cure palliative e il servizio dell’emergenza-urgenza, la AREU, sono organizzate in una rete territoriale che prevede la presenza di un medico 24 ore su 24. Questo fa un’enorme differenza nella capacità di intervento precoce e tempestivo.
È in questa fase, di transizione demografica – e in attesa che arrivi l’ondata della vecchiaia dei baby boomers, che già si annuncia – che vanno strutturate nuove risposte.
Le strutture ospedaliere non sono organizzate per accogliere la cronicità, pensate come sono per agire sull’urgenza e su patologie acute. Mi immagino un ripensamento del territorio, dove le équipe di cure palliative, facendo la loro parte, dovrebbero integrarsi con le realtà della vecchia rete ADI che oggi si chiama C-DOM e con le case di riposo che erogano già assistenza a pazienti cronici.
D’altra parte, dobbiamo, credo, immaginarci anche nuove équipe, composte da specialisti di branche diverse e da palliativisti, perché noi palliativisti veniamo da un’esperienza relativamente meno complessa, la cura del fine vita nel paziente oncologico ha un andamento più lineare rispetto a questi pazienti, con traiettoria più articolata e discontinua, con ricadute e, poi, sorprendenti riprese.
Serve una trasformazione organizzativa, culturale, di politica sanitaria della medicina specialistica tanto quanto dei palliativisti, per quanto sappiano dare risposte organizzate. Urge infine una riflessione etica: i palliativisti esprimono una medicina che si confronta quotidianamente con il limite e questa visione deve entrare in dialogo con una visione medica che rischia, viceversa, di considerare lecito tutto ciò che è tecnicamente praticabile”.
Questo articolo è tratto dal Notizario “Insieme a VIDAS”. Sfoglia l’ultimo numero QUI