Il nostro blog vuole essere – tra le altre cose – una finestra aperta attraverso cui far conoscere in modo un po’ più concreto il “nostro” mondo, quello delle cure palliative ovvero dell’assistenza e della cura che si realizzano ogni giorno grazie alle numerose donne e uomini che mettono a servizio degli altri la propria professionalità. Dietro ciascuno di noi si “cela”… il nostro mondo di essere umani, concreti, veri, con le proprie emozioni e preoccupazioni… Noi di Vidas che spesso siamo combattuti nel riconoscerci come unica identità: persone o professionisti? Di fatto, le due identità si intrecciano e si fondono per dare vita a ciò che noi siamo davvero, al di là delle nostre maschere o della nostra capacità di essere prima che di fare.
Per questi motivi, qualche giorno fa ho provato a raccontare di me su queste pagine, attraverso il mio incontro con Vidas, con il mondo delle cure palliative, con i pazienti che ho assistito. Oggi ho chiesto a Isabella, psicologa e psicoterapeuta che da poco più di un anno lavora con noi, di raccontarci la sua storia. Eccola…
L’incontro con Vidas è stato quasi fortuito. Dopo aver conosciuto il mondo delle cure palliative durante uno dei tirocini fatti per la scuola di specializzazione in Psicoterapia, ho sentito forte la voglia di “spendermi” in questo campo e questo mi ha portata a cercare e trovare una prima collocazione lavorativa in un’associazione di assistenza domiciliare (l’Ancora di Longone al Segrino). Il lavoro ha consolidato la motivazione e il desiderio di usare la mia competenza professionale per stare accanto ai malati terminali e ai loro familiari. Alla luce di ciò ho cercato altri possibili contesti lavorativi: tra i vari contatti individuati c’era Vidas a cui ho proposto la mia candidatura. Sono stata contattata per un primo colloquio conoscitivo ed ora eccomi qui: Psicologa/Psicoterapeuta Vidas!
Una parte del mio lavoro clinico si svolge con i malati terminali seguiti a domicilio dalle équipe domiciliari Vidas e con i loro familiari. Il desiderio del malato di avere uno spazio di ascolto psicologico può venire da lui o essere segnalato da un familiare e/o da un operatore dell’équipe. Durante la malattia del loro congiunto anche i familiari possono beneficiare del supporto psicologico con incontri a domicilio o in Casa Vidas. Un’altra parte del mio lavoro si rivolge alle persone che richiedono a Vidas un aiuto nel processo di elaborazione del lutto. Il dialogo quasi quotidiano con i vari operatori di Vidas (assistenti sociali, medici, infermieri ecc.), la partecipazione ai momenti di supervisione, formazione e ricerca del gruppo degli psicologi, alle équipe domiciliari e plenarie, e agli incontri di supervisione ai volontari sono tra gli aspetti più coinvolgenti del mio lavoro.
Il campo della malattia fisica mi ha affascinata fin dall’università quando in insegnamenti come “Psicologia fisiologica” e “Neuropsicologia” ho studiato le sequele cognitive, emotive e relazionali della malattia sul malato e sul suo sistema familiare. Questo interesse mi ha condotta inizialmente ad approfondire l’aspetto della neuropsicologia e successivamente quello della psico-oncologia, ma entrambi questi ambiti mi hanno lasciata insoddisfatta perché non mi hanno permesso di “conoscere” il declinarsi della malattia nel fine vita. La voglia di comprendere questo declinarsi mi ha spinta a cercare un tirocinio in cure palliative durante il quale ho capito che le mie corde si sintonizzano meglio con la terminalità: credo che questo dipenda dal sapere, a livello oggettivo, che la vita ha senso solo per l’esistenza della morte e dal sentire, a livello soggettivo, che il confrontarsi con la morte può aiutare a vivere in maniera più piena la vita.
L’assistenza che più vividamente ricordo è la prima seguita per l’Ancora e credo che il ricordo persistente si leghi sia alla “prima volta” sia al lavoro sull’intero sistema familiare. Dovevo sostenere la moglie di un malato terminale quando la prognosi era di circa sei mesi, ma durante i primi colloqui al domicilio ho subito colto che la domanda di aiuto era implicita anche negli altri familiari, in particolare i tre figli, che a causa della malattia del padre si trovavano a ripensare alla loro vita e alla progettualità che li aveva guidati fino a quel momento. Il mio lavoro si è quindi declinato dando spazio e voce a tutti gli attori coinvolti così da dare a ciascuno la possibilità di ri-raccontarsi alla luce della malattia e della prossima separazione; i racconti si sono svolti sia in momenti individuali sia di gruppo. I momenti di condivisione in gruppo sono stati particolarmente toccanti a livello emotivo permettendo di far circolare tra i vari membri del gruppo familiare emozioni poco o mai espresse. Ciò ha permesso il crearsi di un clima di vicinanza empatica che ha sicuramente aiutato tutti a vivere delle relazioni più piene all’interno e all’esterno del sistema familiare. La condivisione emotiva ha, inoltre, portato i membri a sostenersi vicendevolmente nella separazione e nel lutto e ha aiutato il malato a morire serenamente, certo dell’unione che sarebbe rimasta tra i membri della famiglia dopo la sua morte.
Personalmente ho sentito e sento che la morte mi sprona, tra le altre cose, a vivere maggiormente la quotidianità senza procrastinare il tempo del piacere a un futuro incerto, a lottare nel presente per i miei sogni, e a dedicarmi ogni giorno alle relazioni. Ho scelto e scelgo di lavorare coi malati terminali per stare loro accanto, a volte anche solo silenziosamente, mentre si separano dagli affetti, per sostenere i familiari nel lasciare andare i morenti e per dare a me stessa una vita più ricca perché cosciente del limite che la morte le conferisce.