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11.10.2024  |  Cultura

Arte come partecipazione

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Artista visiva, autrice di grossi interventi di arte pubblica, Ilaria Turba ha sperimentato negli anni, in tanti contesti e culture, una pratica artistica radicata nell’incontro, nella relazione e nello scambio con le persone.

Raccontaci di te, da dove sei partita, come sei arrivata dove ti trovi.

Ho una formazione che mescola studi accademici – Accademia di Brera – con esperienze di vita e lavoro significative. In parallelo agli studi artistici ho avuto una borsa di studio dall’Istituto Italiano di Fotografia ed è iniziata la mia gavetta per imparare il mestiere di fotografa, dato che mi rendevo conto che, come artista, non sarei riuscita in tempi brevi a vivere del mio lavoro. Mi sono poi specializzata in storia e gestione della fotografia e ho iniziato a collaborare con una serie di archivi fotografici: il primo è stato quello di Leo Matiz, fotografo colombiano molto attivo negli anni Cinquanta nel Latinoamerica.

Cosa ti porti dietro dell’esperienza negli archivi fotografici?

La dimensione dell’archivio è sempre molto interessante e ha sicuramente influenzato la mia pratica artistica. Anche l’incontro con la storia orale è stato importante.

Storia orale – ovvero?

Sono stata influenzata dalla scuola di Duccio Demetrio in un momento in cui prendeva corpo la mia vocazione per i progetti sul territorio e il lavoro con le persone. Da lì ho iniziato ad usare le testimonianze orali nel mio lavoro.

Ho sempre creduto che l’arte fosse uno strumento utile per la società.

Per questo oggi lavoro direttamente con istituzioni pubbliche come musei, teatri e ancora fondazioni, università, associazioni e festival con cui costruisco interventi di arte pubblica e arte relazionale.

In quali luoghi?

Sono stata in tantissimi posti, in Italia e all’estero. Per molti anni ho collaborato con Amnesty International in tante periferie difficili d’Italia lavorando nelle scuole e sono stata a lungo a Napoli, a Ponti Rossi e a Ponticelli.

Avevo necessità di entrare nella scuola, confrontarmi con bambini e ragazzi. Volevo che la mia pratica artistica parlasse a tutti, in modo orizzontale. È stato importante passare proprio dalla scuola e da altri luoghi di vita ‘reale’.

Dove ancora hai lavorato?

Ho viaggiato in America Latina per tantissimi anni, ho lavorato molto in Francia, soprattutto nei teatri con azioni pubbliche nello spazio urbano. Il filo rosso che tiene assieme tutte queste esperienze è stato il lavoro sui territori e sulle comunità. Il punto di partenza è stato l’arte contemporanea, con un passaggio alla fotografia, agli archivi e alla storia orale a cui si è poi aggiunta l’educazione e il lavoro partecipato. Con il progetto quadriennale sui desideri dei quartieri nord di Marsiglia (Le désir de regarder loin) tutte queste nature diverse si sono allineate e hanno trovato un posto in un progetto unico e denso. È stata la prima volta che la mia pratica artistica interdisciplinare trovava il tempo e lo spazio per esprimersi in un solo progetto in cui l’opera finale era il processo condiviso costruito con tantissime persone.

Perché è interessante lavorare con VIDAS?

L’adolescenza è un’età della vita in cui vengono poste questioni esistenziali potenti, un momento in cui c’è una disponibilità di riflessione molto interessante. Poter lavorare su un tema come paura e libertà con un gruppo di adolescenti nel contesto di VIDAS mi sembra un insieme di ingredienti stimolanti per una riflessione da allargare a un pubblico adulto più ampio.


La terza edizione di INCONTRO, il festival culturale di VIDAS, si terrà il 18, 19 e 20 ottobre 2024 al Teatro Franco Parenti di Milano.

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