Giovanna Visconti è il medico Vidas di riferimento per l’età pediatrica: oggi segue l’équipe dedicata a domicilio. È giovane – e mamma. E questo sembra fare a pugni con la capacità di tenere la giusta misura nell’assistenza di bambini e ragazzi con malattie incurabili. Fortunatamente la realtà è meno banale di così. La passione di Giovanna è buona compagna di una dolcezza che sarebbe struggente se non fosse saldamente ancorata ad una determinazione non comune. Il medico che tutti vorremmo avere.
Sono un medico di medicina generale – dopo essere stata un’aspirante pediatra. La mia tesi di laurea (che per i medici significa due anni di tirocinio in reparto: per me il biennio ‘93-’95) è alla De Marchi dove mi avevano affidato i piccoli pazienti Hiv positivi. Al tempo si trattava di malati per i quali non c’erano cure, bambini e ragazzi destinati a morire: volendo ravvisare un’origine, direi che la mia esperienza con i malati terminali trova alla De Marchi le sue radici. Il Master in Cure Palliative, qualche anno più tardi, durante il quale ho conosciuto Vidas, è stato il compimento. Da allora sono un medico Vidas e, dall’anno scorso, sono tornata a occuparmi dei pazienti in età pediatrica. Da mamma di due ragazzi di 18 e 16 anni e mezzo, curo bambini e ragazzi con gravissime malattie e tengo botta. Nessun sintomo di burn out sinora, mio marito mi conferma che è così.
La scorsa estate sono stata per un periodo all’Istituto dei Tumori, un percorso condiviso con colleghe a tempo pieno. L’obiettivo era gestire la presa in carico di Vidas all’interno dell’Istituto così da orchestrare una strategia coerente su due fronti: chi dimette e chi accoglie il paziente. Oggi accade che si faccia una prima visita insieme all’interno dell’Istituto, in cui tutta l’équipe Vidas è presente e viene presentata alla famiglia, e magari una seconda. A seguire, viene mantenuto un contatto regolare su quel paziente.
Dalla fine di febbraio e per un paio di mesi ho fatto formazione con il professor Selicorni, che opera al San Gerardo di Monza, per conoscere un po’ le malattie genetiche, specie quelle diagnosticate alla nascita e prima – certe trisomie rare, come la 18, che si traduce purtroppo in un’aspettativa di vita già alla nascita molto ridotta e nell’impossibilità di somministrare cure altre rispetto a quelle palliative.
I miei pazienti sono autentici guerrieri, piccoli uomini e piccole donne che non si piangono addosso e chiamano le cose per nome. B., ad esempio, che ho conosciuto lo scorso agosto e assistita solo per pochi giorni. Aveva 12 anni e la sua mamma è incinta di un altro figlio oggi, su sua richiesta e desiderio. Una sera, dopo che le avevamo dato la morfina perché era oppressa da un dolore importante, mi ha chiesto –eravamo sole, a casa sua, i genitori erano fuori dalla sua stanza- se avevo figli. Ho annuito e lei ha incalzato: “Hanno avuto le malattie dei bambini, come il morbillo, la varicella..?” Di nuovo ho assentito e lei ha replicato: “Vedi, io quelle non le ho avute. Però, ho la leucemia”. “Tu fai le cose in grande” ho replicato.
L’ultima assistenza è stata ad un bambino che se ne andato appena qualche settimana fa. Aveva 11 anni e un tumore all’encefalo. In effetti si trattava di una recidiva, drammatica. La prima diagnosi di malattia risaliva al 2005, quando aveva un anno. L’istologia non era così maligna e, fatte le terapie (chemio e radioterapie per due, tre anni), era stato benino fino al 2014. Frequentava la scuola. È arrivato a Vidas a settembre 2015 e l’assistenza è durata meno di sette mesi. L’abbiamo seguito in tante: io, l’infermiera, la logopedista (per un problema di disfagia), la psicologa.
Aveva subito una peg [ovvero una gastrostomia, intervento a seguito del quale la nutrizione è possibile solo attraverso un tubicino che entra direttamente nello stomaco, ndr] ma si era ripreso. Almeno, fino a luglio 2015. Aveva problemi di deglutizione così nell’équipe c’era anche una logopedista – che l’ha soprannominato piccolo Buddha. Era così tranquillo, di una serenità che suscitava, a tratti, la nostra incredulità. Non si è mai lamentato di nulla. La malattia, sin dalla prima comparsa, gli aveva causato un leggero ritardo cognitivo – in gergo tecnico un rallentamento ideo-motorio. Un bambino pressoché normale, lucido e interattivo, appena un poco più lento. È andato sempre a scuola, pur avendo difficoltà di deambulazione – affiancato da un insegnante di sostegno. Aveva una dignità e una voglia di fare grandi, grandissime. Era un bambino determinato che si prendeva il tempo per fare con calma, e faceva un sacco di cose.
L’accompagnamento è stato un percorso piano, senza particolari incidenti. Un’assistenza intensa, dispensata in gran parte a casa sua. Non ha disturbato nessuno, mai. Nell’ultimo periodo dormiva molto, era molto rallentato, cercava sempre la compagnia di qualcuno. Oltre alla mamma e al papà, stava con lui il fratello adolescente, un quindicenne esuberante che a momenti richiamava l’attenzione con gesti sopra le righe, racconti di piccole bravate, conditi di sconcezze, e i nonni paterni – quelli materni vivono in Croazia, non li abbiamo mai visti.
La mattina del 22 marzo intorno alle 10 abbiamo ricevuto –io, in auto tra una visita e l’altra, e l’infermiera, a casa di un altro paziente [cosa stavate facendo voi? ndr]- la telefonata del suo papà che ci avvisava che se n’era andato. Nel sonno, senza clamore. In silenzio.
Quando sono arrivata a casa, ho visto, per la prima volta, i suoi occhi. Azzurri, bellissimi. La malattia gli aveva causato uno strabismo che li gonfiava così che non fissava mai direttamente.I genitori sono stati sempre piuttosto discreti, taciturni: un riserbo pieno di dignità. Più propensi a tenersi dentro piuttosto che ad aprirsi con noi – nonostante, come sempre, siano stati invitati a farlo.
Siamo tornati, con il pretesto di ritirare i farmaci avanzati, e la psicologa ha continuato a visitarli regolarmente. Il mio legame con la famiglia finisce con questa visita, tipicamente una quindicina di giorni dopo la morte. Non sono andata al funerale – dovrei andarci sempre, per tutti – perché mi sembra di essere invadente. Vorrei ma mi faccio violenza, credo che non sia giusto. L’ultimo saluto è un momento della famiglia e dei suoi affetti.
Mi capita di ricevere gli auguri a Natale, questo sì. Si creano legami, anche forti ma invisibili, carsici. È la ricchezza di questo lavoro – il punto finale di un cammino che è il ritorno al punto da cui sono partita, la somma di tante coincidenze che fanno groppo, rientrare, con naturalezza, in quella corsia dove i pazienti erano bimbi che stavano morendo e io una laureanda. L’origine stessa del mio essere medico.