Se la sala che lo scorso martedì ha ospitato il nostro incontro su “Le radici della paura” fosse stata il centro del mondo forse vivremmo in un mondo migliore. Non perché in quella sala fossero raccolti i migliori. Piuttosto in quella sala ha prevalso la capacità di farsi prossimo, il dialogo fatto di comprensione e rispetto.
Tale è stato il primo pensiero dinnanzi alle oltre 400 persone che hanno gremito la stupenda sede del centro ambrosiano di documentazione e studi religiosi e hanno seguito con estrema attenzione (gli interventi del pubblico sono il segno più evidente delle tracce positive lasciate dagli oratori) gli interventi del presidente della fondazione della Casa della Carità don Virginio Colmegna, Svamini Hamsananda Giri, vice presidente dell’Unione Induista Italiana, Asfa Mahmoud, presidente della Casa della Cultura Islamica di Milano e Giuseppe Laras presidente onorario dell’assemblea rabbinica italiana.
L’incontro interreligioso di Vidas, al terzo anno, ha di nuovo colto nel segno, anche per l’argomento quanto mai di drammatica attualità: le radici della paura, l’altro, il prossimo, il nemico.
Il presidente Ferruccio de Bortoli, dopo aver sottolineato che il rapporto con l’altro non è sintonia, ma si identifica nel rispetto delle diversità, ha posto quesiti cruciali: siamo capaci di farci prossimo? Sappiamo vincere i pregiudizi? È possibile un dialogo fatto di comprensione e rispetto? Quesiti posti avvalendosi della parabola del Buon Samaritano, laddove il prossimo è il religiosamente altro da noi.
Una parabola, ha proseguito sulla traccia Don Colmegna, che smaschera tutti i sentimenti di inimicizia, il muro più arduo da superare assieme alla paura e all’indifferenza, sentimento che rende irrilevante la vita altrui. Occorre un dialogo per scoprirsi nella diversità, sapendo che in fondo al pozzo non c’è la nostra acqua, ma solo quella di Dio. Un dialogo che, se privato del reciproco rispetto, produce una finta fraternità.
Proprio il dialogo e la reciproca conoscenza sono stati il filo conduttore di Asfa Mahmoud che ha indicato nei versetti del Corano le chiavi di una confessione fatta di mutua conoscenza, di unità del genere umano nella diversità. Conoscersi significa far cadere i pregiudizi generati dall’ignoranza e disporsi al dialogo. Ci sono popoli musulmani, ha sottolineato entrando nell’argomento più delicato dati i tempi, l’Isis, ma non stati islamici, mercenari che nulla hanno a che fare con noi.
Non è mancata anche una garbata polemica quando Mahmoud ha indicato nella difficoltà d’integrazione delle comunità musulmane di Belgio e Francia una delle cause possibili delle folli notti di Bruxelles e Parigi. Quando la vostra comunità lamenta la mancata risposta da vent’anni di avere un adeguato luogo di culto, ha replicato de Bortoli, noi siamo e saremo sempre con voi, ma è sbagliato cercare giustificazioni di fronte alla ferocia del terrorismo: non esiste neutralità di fronte ad atti che negano l’essere umano. L’Italia lo ha sperimentato in una triste stagione di quarant’anni fa quando c’era chi sosteneva un’ambigua neutralità nella sfida del terrorismo allo Stato.
Temi del rispetto dell’altro, della paura, non facili dunque da districare. Lo ha rammentato il rabbino Laras, sottolineando quanto la paura sia un elemento che accompagna la condizione umana, quanto spesso accada nel mondo che l’altro sia avvertito come una presenza pericolosa. Perché, s’è domandato, nei testi è scritto con tanta insistenza che si deve amare, che amare è un è precetto? Perché amare non è facile, è una meta da raggiungere in quanto siamo stati messi al mondo per fare qualcosa di bene.
Quali strade da seguire per raggiungere tale traguardo? Importante è la socializzazione, la mescolanza. Laras ha rammentato che la figura biblica più amata dai rabbini sia Abramo piuttosto che Noè. Certo Noè è uomo integro, retto, camminava con Dio, ma quando arriva la pioggia del diluvio, altri non c’era accanto a lui che la sua famiglia. Certo camminava con Dio, ma si deve camminare con Dio e con gli uomini. Ciò che è mio è mio e ciò che è tuo è tuo è la posizione mediana degli abitanti di Sodoma. È nello scambio e nella condivisione che si trova la giusta via.
Camminare gli uni accanto agli altri per sconfiggere la paura. Un gesto che riporta alle radici della religione induista. In principio, spiega Svamini Giri, Dio disse sono uno perché non c’è nulla intorno a me. Ma ebbe paura perché chi è solo ha paura, non prova gioia. Così si divise in due, nacque l’altro e si generò la stirpe umana. Nel mondo induista l’identità è dunque l’altro, perché l’altro siamo noi. Riconoscersi nell’altro è riconoscere la nostra sostanza in diversa forma. Da ciò nasce il bisogno d’interrelazione, nessuno può vivere da solo e si realizza negli altri: “Se vuoi essere veramente egoista cura gli altri perché così curi te stesso”.
Torna alla fine, in significativa coincidenza corale, l’interrogativo posto da don Colmegna dell’abbraccio universale per abbattere ogni sentimento d’inimicizia, l’unica risposta possibile alla radicalità di questi tempi. Risposta non facile, perché difficile è la scelta delle opzioni buone, ma la sola via per allontanare davvero la paura. Ciò che accadrà oltre noi è nelle mani di Dio. Per ora vale quel che oltre duemila anni fa, scrisse un monaco buddista: sua Maestà desidera che vi asteniate dal denigrarvi a vicenda, chi disprezza l’altro credo abbassa il proprio credendo di esaltarlo.