Lo confesso, non senza avvertire una patina di rossore salirmi al volto: se dipendesse da me, la festa dell’8 marzo non avrebbe ragion d’essere.
Carneade, che dice costui?
Quando mi è stato chiesto di scrivere una nota sulla festa, ho tuttavia risposto di sì con gioia e convinzione, tanto più perché la chiave dei pensieri che mi è stata affidata reca il nome della fondatrice di Vidas, la signora sottile ma dall’anima di ferro, com’ebbe a definirla con mirabile sintesi l’amica Simonetta Lagorio in occasione della consegna di un premio dedicato a una figura di spicco dell’universo femminile intellettuale italiano.
Che nesso c’è, dunque, tra la mia poco significativa confessione e il ricordo di Giovanna Cavazzoni?
C’è nell’inevitabile fatica a riconoscere lo stato di necessità di una celebrazione che nei suoi presupposti è determinata dalla sconfitta della ragione che non solo è durata secoli, ma che continua a lasciare miserabili impronte nelle tante violenze subite dalle donne che vengono alla luce e nelle moltissime che ancora restano sotto traccia. Violenze fisiche, orribili, e altrettanto nefaste violenze psichiche.
È l’identica pulsione di ribellione che si manifesta dinnanzi ad altre discriminazioni che fondano i loro presupposti sulla negazione della ragione: perché debbo, nel Terzo Millennio oramai avanzato, dover ancora difendere chi ha il colore della pelle diverso dal mio? Perché spiegare l’ovvio?
La risposta all’interrogativo viene ancora una volta dalle riflessioni dell’amica Giovanna che nella sua vita ha fatto della lotta ad altre discriminazioni la ragione fondante della sua azione.
Perché, ebbe modo di spiegarmi, il cammino della ragione non coincide mai con il cammino dell’umanità: la seconda procede sempre in ordine sparso e non pochi vanno a zig zag, altri ritornano sui loro passi, si perdono, altri s’incamminano a ritroso, viandanti ciechi di rabbia e di paura.
Ho scovato tra i suoi scritti una riflessione che qualche tempo fa le venne chiesta proprio in occasione di una festa dell’8 marzo: “Sicuramente molti sono stati i passi compiuti verso una liberazione della donna in termini di diritti civili nella società – disse- Ma la strada è ancora lunga per un reale processo di integrazione”.
Una risposta frutto di un’esperienza sul fronte di altre discriminazioni, quelle legate al diritto di trascorrere sino in fondo una vita dignitosa. Ma è nell’ulteriore chiarimento che ritrovo l’anima “di ferro” dell’amica.
Aggiunse, dopo una breve pausa: “Ora che ci penso quel termine, integrazione, non mi piace comunque. Parlerei piuttosto di valorizzazione delle differenze e riconoscimento del merito. Ancora oggi, per esempio, troppe donne hanno stipendi e ruoli inferiori rispetto ai colleghi pur avendo di frequente pari o anche maggior preparazione a livello di studio ed esperienza”.
Cara Giovanna, passa il tempo ma anche dallo sconosciuto luogo in cui ora ti trovi, mi dai il conforto della tua saggezza.
Non so bene quanti 8 marzo mi verranno concessi, ma so che ci sarò. E se mi capiterà di esclamare, come il povero Renzo, di fronte a un passo in avanti: “A questo mondo c’è giustizia finalmente!”, ci sarai tu a fare le veci del Manzoni: “Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica”.
La via della vendetta è dietro l’angolo, ma quella della giustizia è difficile da rintracciare e non ha fine. Che sia dunque benedetto e benvenuto l’8 marzo!