Tre anni fa, il 20 maggio, moriva Giovanna Cavazzoni.
Mi torna alla mente una bizzarra conversazione avuta con lei anni prima.
“Quando parlerete di me, non usate sciocchi eufemismi, non giri di parole. Dite o scrivete solo: Giovanna è morta. Vi proibisco di usare frasi del tipo ‘Ci ha lasciati’ perché scrivereste tra l’altro una falsità: io non ho alcuna intenzione di lasciarvi, né da viva, né da morta. Non parliamo poi ‘è scomparsa’ che imporrebbe attivare una ricerca del mio io in territori che da vivi non ci e vi appartengono”.
Anche questo era Giovanna, gusto dell’ironia, del paradosso.
Che altro aggiungere al racconto di un’esistenza che si è fatta e continua a farsi vita possibile, attraverso le migliaia di persone che vengono assistite da Vidas?
Qualche giorno fa mi sono ritrovato solo entro i piani dell’hospice pediatrico, passeggiando nell’assoluto silenzio lungo i corridoi e nelle stanze dai colori che, anche così, vuote sprigionano accoglienza, in attesa che il sentiero delle procedure di legge faccia il suo corso.
Giovanna è in ognuna di quelle camere, come nelle sale di ricreazione. Ovunque. C’è n’è una, in particolare, dove la ritrovo con più insistenza. È la sala del teatrino, che a taluni pareva un vezzo eccessivo, ma fu da lei voluta per suggellare con la rappresentazione ludica il patto vitale che unisce grandi e piccini.
Se dovessi dare a questo spazio un nome in onore di Giovanna, la chiamerei la sala della relazione.
Perché il bisogno di relazione è il tratto costitutivo di una personalità, pure poliedrica e complessa qual è stata quella di Giovanna.
Vidas è il frutto maturo di una relazione che la giovanissima Giovanna ebbe con l’amica di mamma, quando prese coscienza della sofferenza dei malati soli; entro le modalità di relazione ha vissuto l’intensa attività professionale che ha fatto da preludio alla sua creatura assistenziale.
La relazione è dunque il tratto costitutivo, intrinseco della sua personalità, alla quale attribuiva somma importanza.
Quando la si accoglie nella mente e nel cuore, diceva, finisce per ispirare tutte le azioni della nostra vita.
Poco importa, allora, se i territori da esplorare sono nuovi, difficili, si presentano come ostacoli complessi.
Nella sua attività di PR si è cimentata in ambiti non popolari, dalla musica contemporanea, all’editoria, alla medicina. Ha sempre cercato di trovare la via giusta, girando mezzo mondo per confrontarsi su ogni tema con le esperienze altrui, ricavandone modelli da adattare al proprio lavoro del momento. Così ha fatto per Vidas.
A proposito di decalogo della relazione, non dimentico i suoi racconti durante i frugali pranzi. “Sai che significa la lettera A?” Mi chiese un giorno, così per celia, ponendomi nel consueto imbarazzo.
Disse: “A sta per affinare la relazione. È un progetto che parte da una sedia”.
“Come?”
“Sì, sedia, quella sulla quale ti accomodi alla sera dopo una giornata di lavoro. Una sedia per capire chi hai incontrato e per riflettere sulle mosse future più adeguate;
poi “entrare, sempre in punta di piedi, mai insistere se si vogliono ottenere risultati”;
ancora: “imparare a motivare, a convincere con leggerezza, lasciando assoluta libertà di adesione e di tempi”;
di nuovo la lettera A e ancora affinare, stavolta in modo meticoloso toni e linguaggi;
personalizzare che vuol dire capire se seguire le onde capricciose dell’interlocutore o se rischiare talvolta una battuta per sbloccarlo.
Questi ferri del mestiere, enumerati con spirito giovanile e l’auto ironia che hanno sempre soggiornato in lei, non le hanno impedito, sin dai primi anni Ottanta, di avere del volontariato una visione lucida e razionale, abbandonando vecchi percorsi che sino ad allora avevano contrassegnato le esperienze in campo assistenziale.
Sì al volontariato come donazione gratuita, in difesa dei diritti dei più deboli, ma soprattutto entro modalità professionali. La vecchia mentalità, che per secoli aveva pure dato frutti di ottima condivisione sociale, di colpo doveva mutare e diventare altro impegno.
Giovanna rammentava che professionalità, la parola che oggi riempie la bocca di molti, talvolta in modo pretestuoso, suonava male se riferita al volontariato, sembrava sulle prime condizionarne gli slanci umanitari.
Era difficile far capire il significato di volontario d’equipe, ovvero il passaggio dal volontariato tradizionale socio-assistenziale a quello socio-sanitario.
Era complesso fa comprendere a chi svolge un impegno volontario che la professionalità non è una gabbia fredda, che sedersi intorno a un tavolo di équipe, dire la propria opinione, ma ascoltando e armonizzandola con quelle degli altri non è un minor atto d’amore. Soprattutto quando si tratta di condividere scelte su un piano di assistenza a malati gravi. Ci vollero tempi lunghi, fatti di fatiche, mugugni, qualche abbandono. Ma alla fine quella scelta prevalse.
Non a caso Magris scrive del volontariato Vidas: “Non barellieri della storia che si precipitano per soccorrere vittime di occasionali incidenti, ma persone che rendono più degno d’essere vissuto il lembo estremo della nostra esistenza”.