In questo periodo di pandemia abbiamo imparato a convivere con la paura, un’emozione forte e incontrollabile, che ormai abita in ciascuno di noi e ci accomuna tutti, indipendentemente dalla cultura e dal luogo di nascita. Con l’aiuto di Carlotta Ghironi, psicologa VIDAS, proviamo a definirla e fornire utili suggerimenti per affrontarla e superarla, evitando che si trasformi in disfunzionale.
Indice
La paura è la reazione istintiva che mettiamo in campo per affrontare una minaccia, per fronteggiare un attacco, per difenderci. La nostra stessa sopravvivenza dipende dalla paura. È normale oggi avere paura delle persone, del contatto fisico: la manifestiamo con modalità diverse, con espressioni personali, ma rimane un comune ‘rumore’ di sottofondo. Siamo in un territorio sconosciuto, abbiamo perso il controllo e percepiamo in modo più evidente che la nostra vita dipende da altro.
Durante la pandemia, tutto il mondo conosciuto si è sbriciolato fra le nostre mani, e convivere e gestire la paura è una delle attività che siamo chiamati a fare quotidianamente, come cucinare o lavarsi i denti.
La paura è l’emozione più difficile da gestire.
Il dolore si piange, la rabbia si urla,
ma la paura si aggrappa silenziosamente al cuore.
(Gregory David Roberts)
La paura del coronavirus fa parte di quelle che l’antropologo Marc Augè definisce come le ‘nuove paure’, caratterizzanti il nostro secolo. Ci spaventa qualcosa di indefinibile e difficile da identificare, manca il nemico concreto e il conflitto diretto, questo coinvolge tutta la collettività in modo disorientante.
Il Coronavirus si presenta come un nemico invisibile, intangibile che invade e pervade in modo indifferenziato e si fa portatore di morte. Una morte che oltre ad essere fisica è anche una morte sociale, relazionale ed economica. In questo caso si tratta di una morte simbolica che preannuncia una trasformazione, ma ancora non la possiamo toccare, possiamo solo vivere il senso di perdita. Per la prima volta stiamo percependo un rischio vero non solo per la nostra vita e per come la conoscevamo prima, ma anche per le persone vicine e per l’umanità intera.
Tutto questo genera una forte emozione che oggi va gestita, per farlo al meglio bisogna conoscerla e conoscere i suoi meccanismi. Importantissimo è sapere che quando la paura si innesca non è possibile annullarla, dobbiamo necessariamente conviverci perché dipende dal nostro sistema limbico, da una zona del cervello su cui non possiamo intervenire con la volontà.
Se la paura si protrae a lungo nel tempo, può essere un’emozione altamente tossica. Quando la mente ritiene che ci siano pericoli, l’emozione rimane attiva, siamo ostaggio di ciò che sentiamo. In questi casi la paura non solo ci allontana dalle minacce, ma rischia di allontanarci anche dalla vita.
Quando la paura diventa disfunzionale?
Ci sono alcuni campanelli d’allarme che meritano la nostra attenzione:
Quando si verificano uno o più di questi sintomi, è importante agire per disinnescare, creando uno spazio fra l’emozione e l’azione. È inutile cercare di distrarsi per dimenticare la paura, perché l’effetto sarebbe solo provvisorio e apparente.
Ci sono invece altri comportamenti da attuare per superare la paura, come ad esempio:
Nell’attesa possiamo coltivare la speranza e darci un obiettivo ogni giorno, celebrando le opportunità che questo momento ci dona. Possiamo sentire in modo più intenso quanto la nostra natura sia di esseri interdipendenti, alimentando la compassione per gli altri.
La vita si restringe o si espande
in proporzione al nostro coraggio.
(Anais Nin)
La pandemia ha innescato forti sensazioni di paura anche in tutti i nostri operatori, impegnati sul campo nell’assistenza ai malati inguaribili, sia in hospice sia a domicilio.
La paura di contagiare gli altri prevale su tutte. Il rischio che sentono è essere percepiti non più solo come portatori di cura e assistenza, ma di diventare veicolo di contagio, e quindi di morte potenziale dei pazienti. Quando entrano nelle case e si avvicinano ai pazienti percepiscono il timore nello sguardo dei famigliari, sentono che la loro presenza non è più solo rassicurante ma anche fonte di preoccupazione. Sanno che questa preoccupazione si somma alle altre emozioni che una famiglia sta vivendo in questo periodo tanto delicato, temono di dare un carico eccessivo.
A questo si unisce la paura di essere contagiati, di essere esposti ad una situazione di pericolo e di portare nelle proprie abitazioni, ai propri famigliari, la malattia. Oltre alla paura di morire o di veder morire qualcuno caro lontano dai propri famigliari e in solitudine. Chi lavora quotidianamente nelle cure palliative sa che morire soli, senza carezze, senza sguardi famigliari e gentili, è una morte molto dolorosa.
In questi giorni vita privata e vita professionale si intrecciano in modo assoluto, senza più lasciare possibilità di distinzione netta fra l’una e l’altra. Ora più di prima è impossibile lasciare fuori dal lavoro chi veramente siamo.
Siamo tutti chiamati a vestirci con nuovi presidi (le tute, le mascherine, le cuffie) ma anche a spogliarci di più, fino all’osso, fino a mettere in campo tutta la nostra umanità. Possiamo farlo per poterci avvicinare e toccare l’altro il più possibile, più di quello che forse abbiamo mai fatto.