La morte del Cardinal Martini, è stata accompagnata da molte parole. Un’eco mediatica enorme l’ha avuto il fatto che il nostro cardinale emerito abbia rifiutato l’accanimento terapeutico. Vi confesso che per me – medico palliativista – questo genere di notizie è sempre difficile da comprendere: penso infatti, che in una società “sana” ed “equilibrata” ci si dovrebbe indignare di fronte all’accanimento terapeutico in quanto atto da non perseguire perché moralmente inaccettabile.
E non stupirsi quando qualcuno rifiuta terapie inutili. Eppure molte volte non è così. Questi pensieri mi hanno accompagnato durante tutto il week end successivo alla morte di Martini e avrei voluto condividerli con voi sul nostro blog, ma non riuscivo a scrivere qualcosa che mi convincesse.
Poi, lunedì ho ricevuto una telefonata dall’hospice che mi ha portato a vivere un’esperienza intima con un paziente ricoverato da qualche giorno nella nostra struttura. Ho pensato di farvene dono perché racconta in modo non tecnico né moralista ciò che significa anche per noi operatori accompagnare una persona nel suo percorso di fine vita fino all’ultimo respiro. Qualcosa di decisamente lontano dall’accanimento terapeutico.
Il mio cellulare squilla, sono le 4.44: non può che essere una telefonata dall’hospice. Rispondo e intanto mi avvio verso il bagno… per non svegliare il resto della famiglia. “Il signor A sta male. È agitato. La pressione sta scendendo. Gli ho già somministrato il farmaco che avevi lasciato al bisogno ma…” è la voce dell’infermiera in turno. Poche ma essenziali parole che mi fanno comprendere che le condizioni del signor A si sono aggravate irreversibilmente. Dò istruzioni all’infermiera e mi preparo per andare in hospice: è probabile che debba impostare una terapia sedativa continua per via endovenosa e non voglio far aspettare (e soffrire inutilmente) il nostro paziente.
Apro l’armadio per vestirmi e solo in quel momento mi ricordo che a Milano è stato proclamato il lutto cittadino per l’ultimo saluto a Carlo Maria Martini. È stato arcivescovo della città negli anni della mia adolescenza e prima giovinezza e a lui sono particolarmente affezionata, come molti in città.
Salgo in auto: l’orologio segna le 5:19. Un lunedì come tanti, penso. E invece no. Oggi è il primo lunedì di settembre: giorno in cui la città torna a riempirsi di persone e riprende la sua frenesia di sempre. Eppure non incontro nessuno. Strade deserte. Silenzio. Buio. Entro alle 5.30 in Casa Vidas, un record.
Il signor A si è addormentato e – finalmente – sembra rilassato. Parlo con la figlia e le spiego cosa potrebbe succedere nelle prossime ore. Se al risveglio il papà fosse ancora agitato (di quell’agitazione pre mortem che noi palliativisti conosciamo fin troppo bene – nda), si potrebbe pensare di indurre una sedazione palliativa profonda.
Molto prima di quanto io stessa potessi pensare, vengo chiamata dall’infermiera: “Il signor A si è risvegliato. È agitato…”. “Arrivo” è la mia risposta. Sono le 6:45. Il signor A è davvero agitato: “delirium premorte” scriverò nella mia visita. La figlia ha le lacrime agli occhi: ha capito tutto. Sapeva che la situazione era grave ma non si è mai pronti a dire addio a chi si ama. La sofferenza di quest’uomo tuttavia è sotto i nostri occhi. È una sofferenza totale, contagiosa. Noi siamo impotenti.
Chiamiamo il sacerdote: così quest’uomo che oggi sta morendo ci aveva chiesto sin dal suo ingresso in hospice. Le sue parole non lasciavano dubbi: “Se muoio qui, se muoio di notte, voi lo chiamerete il sacerdote, vero?”. Ma la sua sofferenza non ci concede tregua: è giunto il momento di indurre una sedazione palliativa profonda. Il signor A si tranquillizza, si rilassa, riprende ad avere un respiro regolare. Dorme.
Con qualche minuto di ritardo mi unisco alla riunione del mattino tra operatori della notte e operatori del turno del mattino. Alle 7:45 torno a vedere il signor A che non ha urinato più dalla sera prima. Con l’infermiera decidiamo di cateterizzarlo nel sospetto di un globo vescicale. La manovra è sicuramente fastidiosa anche se non smettiamo di parlare dolcemente al signor A per spiegargli cosa stiamo facendo. E lui accenna a risvegliarsi. Nel frattempo arriva don Stefano. Ci fermiamo in camera con la figlia – io e le due infermiere dei due turni della notte e del mattino – e ci lasciamo guidare da don Stefano che impartisce l’unzione degli infermi al nostro signor A. Mentre stiamo pregando nella mia mente fa breccia il ricordo di Carlo Maria Martini. Della sua spiritualità, del suo amore per la Parola, della sua apertura sincera verso il diverso, della sua capacità di accogliere e ascoltare, della sua sospensione del giudizio, della sua capacità di confrontarsi e mettersi in discussione, del suo coraggio e della sua coerenza che ha testimoniato fino alla fine. E, inevitabilmente, penso alla follia di tanti uomini e donne del nostro tempo che essendo ormai incapaci di accettare il limite e la finitezza dell’essere umano tendono a stravolgere l’ordine naturale delle cose. Quando un personaggio straordinario chiede il non accanimento terapeutico, si schierano dalla parte di chi lo indica come l’esempio da seguire, dimenticandosene presto quando la morte si avvicina a uno dei loro cari.
Mentre stiamo pregando il signor A si rilassa del tutto e accenna a un sorriso.