Nella tarda primavera dell’anno scorso a nostra madre è stato diagnosticato un tumore. Un carcinoma del fegato. Più tardi, ricordo che era la piena estate milanese, ho accompagnato la mamma a Niguarda per una scintigrafia. E da quell’indagine era emersa la presenza di due metastasi, e forse erano tre. Va detto che nostra madre è nata nel 1928 e che da parecchio tempo ci pareva che avesse terminato la fase più dinamica e più fertile della sua vita, se così mi posso permettere di dire.
Dopo che le era stato diagnosticato il tumore l’avevo accompagnata in una struttura specializzata.
In quella circostanza ci siamo trovati di fronte a tutto quello che un malato del genere dovrebbe potere evitare, insomma al concentrato di tutti i comportamenti che stanno esattamente all’opposto della ragione per la quale mi permetto, oggi, di scrivere questa lettera. Ci aveva ricevuto un giovane oncologo rampante e maleducato, e questo può capitare. Quel signore, per tutto il tempo che ci ha dedicato, aveva introdotto in una scheda che andava predisponendo al computer i dati che ricavava dalle cartelle che avevamo portato con noi. Si era interrotto più volte per parlare con la sua fidanzata di questioni francamente poco rilevanti. Non si era quasi accorto di noi, se non salutandoci quando ci aveva fatto entrare nel suo studio. Ora, vede, in una circostanza del genere il semplice gesto di dare la mano al paziente, di toccarlo, avrebbe avuto un certo significato. Avrebbe fatto sentire nostra madre come una persona: una donna anziana che si rivolgeva a uno specialista perché aveva un cancro e voleva capire come provare a condurre l’esistenza che le rimaneva da vivere. Nulla di tutto ciò. Mi rendo conto che il racconto di questa nostra esperienza possa risultare quasi inverosimile, ma purtroppo è assolutamente veritiero. La cosa che più mi aveva stupito, e che aveva furiosamente amareggiato nostra madre, era stata il fatto che quel medico non l’avesse mai guardata in volto. E tanto meno che si fosse preoccupato di visitarla, o di domandarle una qualsiasi cosa di carattere personale. Come si sentisse. Cosa pensasse della sua malattia. Come immaginasse il futuro, e quale. Nulla: il medico scriveva al computer e parlava con la sua fidanzata. Al termine dei suoi silenziosi ragionamenti quel signore ci aveva fatto presente che lui avrebbe provveduto a fare chiamare la mamma non appena possibile per farla ricoverare lì da loro e per sottoporla a una cura. E ci aveva domandato di effettuare quanto prima una scintigrafia.
Se anche quel medico avesse avuto misteriosamente in tasca il metodo magico per liberare nostra madre dal cancro, noi non avremmo pensato nemmeno per un istante di credergli. Mai avremmo affidato la mamma a uno specialista che si era dimenticato di essere una persona.
Lo dico perché voi, prima ancora che oncologi o psicologi o infermieri, siete delle donne e siete degli uomini. Dei padri, dei fratelli, dei figli, delle sorelle, delle madri. E condividete, con i vostri pazienti e con i loro familiari, il medesimo destino.
Questo passaggio mi porta, finalmente, a parlare di Vidas.
Sì, perché dopo il referto della scintigrafia mio fratello Paolo si era messo in contatto con voi. Alla mamma non avevamo tenuto nascosto alcun passaggio delle risultanze dei suoi accertamenti: lei ci aveva detto che sarebbe stata in attesa della morte e che non avrebbe voluto sottoporsi ad alcun tipo di trattamento invasivo. Avrebbe posto come obiettivo temporale ideale alla sua sopravvivenza la data della metà di novembre, quando era previsto che venisse al mondo la seconda figlia della mia secondogenita. Era un bellissimo pensiero, davvero, ma a nessuno di noi è mai parsa, quella, una speranza che avesse qualche possibilità di realizzarsi. La mamma a settembre dell’anno scorso già era diventata una specie di miniatura di sé stessa, e perdeva di giorno in giorno quella straordinaria e feroce autonomia che era sempre stata la sua caratteristica più rimarchevole.
Cosa fare? Abbiamo chiamato voi. E siamo entrati in una dimensione completamente “altra”, completamente difforme, completamente umana.
Di nostra madre Angela si sono occupati per mesi due persone straordinarie, la dottoressa e l’infermiere Vidas. Per noi tutti – per mio fratello, per me, per i nostri figli, ma soprattutto per mia madre- semplicemente M e H. Per tutte le settimane che abbiamo vissuto da allora si sono alternati meravigliosamente al capezzale della mamma. E gli appuntamenti con l’una e con l’altro sono diventati per noi dei passaggi fondamentali, delle tappe serene che scandivano il trascorrere del tempo finale della malattia di nostra madre e che aspettavamo di volta in volta con gioia.
Devo aggiungere che nostra madre ha sempre avuto un gran caratteraccio, e che per certo la malattia non ha aiutato a fare aggallare, di lei, la parte più piacevole da condividere. Con l’andare del tempo in lei sono emerse delle vere fissazioni paranoiche, e anche M e H ne sono stati coinvolti. Ma ogni volta ci hanno dimostrato, con una costanza e con una applicazione straordinarie, cosa sia la vera cura di un malato terminale.
In verità – per l’esperienza diretta che noi abbiamo fatto del vostro intervento – a me pare che voi della Vidas vi prendiate carico non solo del malato che assistite, ma anche delle persone della famiglia che lo circondano. Così è stato per mio fratello Paolo e per me. M e H sono entrati nella nostra quotidianità, hanno saputo dividere tutti i passaggi dei sentimenti che ci hanno percorso in quei mesi, tutti i pensieri, le preoccupazioni, lo sconforto, l’irritazione, persino le sottili differenze che hanno contraddistinto noi figli nel modo di vivere la morte ormai imminente di nostra madre.
In effetti, e per fortuna, anche M e H sono, tra loro, assai differenti. Ma proprio questo rimane, della loro presenza affettuosissima e al tempo stesso tremendamente professionale, competente, vicino alla mamma: un medico e un infermiere, una donna e un uomo, due persone, due caratteri, due storie familiari, due mondi. Ma una sola ispirazione ideale, una sola applicazione “ideologica”, una sola missione, che diviene ancora più apprezzabile proprio perché si declina secondo le caratteristiche delle persone che la realizzano.
Le scrivo questa lettera perché a voi non si può altro che dire grazie.
È poco, non basta, non sarà quello che vi solleverà il morale quando sarete sfiduciati.
Non risarcisce, non rifonde, non ripaga alcunché del moltissimo che abbiamo ricevuto.
Però è così profondo il sentimento di gratitudine che vi portiamo che sarebbe davvero assurdo non provare perlomeno a significarvelo.
Grazie, grazie e complimenti. Dal profondo del cuore.
P.S.: alla fine nostra madre è riuscita a rimanere in vita tanto quanto servisse a farle conoscere la piccola Agata. È stato un grande successo della sua forza di volontà e delle cure straordinarie che le vostre persone hanno saputo prestare. È stato anche uno dei momenti più limpidi degli ultimi mesi di nostra madre. In un giorno di dicembre Angela e Agata si sono conosciute di persona: mia figlia Marta le ha messo la piccolina sulle ginocchia, nel letto, e quelle due creature ai poli contrapposti dell’essere donna si sono guardate, hanno fatto delle specie di versi, a modo loro si sono reciprocamente sorrise. Ho visto per l’ultima volta mia madre percorsa da una specie di luminosità e di dolcezza ineffabile. Grazie anche per questo.