È una bella mattina di fine maggio e il sole, già caldo, riempie la grande sala, un po’ spazio giochi e un po’ soggiorno, al quarto piano dell’edificio che ospita Casa Sollievo Bimbi. Sono con le colleghe Giovanna [Visconti, medico palliativista, ndr] e Priscilla [Manfra, infermiera]. Una giovane operatrice offre, rito e gesto di cura, il caffè. Nessuna voce viene dai mini appartamenti dove sono ospitati pazienti e i loro genitori. La sensazione è di perfetta pace. Nonostante e oltre i contenuti della nostra chiacchierata.
Si parla di malattie complesse e reti di specialisti che, tra casa e ospedale, seguono bambini dipendenti, spesso dalla nascita, da presidi per la respirazione, l’alimentazione, la somministrazione di farmaci, con crisi frequenti e altrettanti accessi al pronto soccorso.
Abilitare i loro genitori a compiere manovre salvavita significa abbassare i livelli di ansia nei loro figli, diminuire le visite in ospedale, risolvendo a casa anche gli eventi critici. Con un aumento palpabile della qualità di vita.
Giovanna Visconti. Per capire il bisogno è necessario partire dai pazienti. Un dato ne spiega bene la complessità clinica: il numero di presidi medici, di cui sono portatori, è in media cinque. Accanto a tanta complessità, c’è un’estrema fragilità, con un rischio di ospedalizzazione altissimo, circa 300 volte più alto rispetto a un bambino sano.
I genitori devono poter essere sicuri nella gestione dei presidi e intervenire precocemente, quando compaiono sintomi. Il ruolo di Casa Sollievo Bimbi è di offrire ricoveri ponte tra reparti ospedalieri intensivi e il domicilio, rafforzando le abilità acquisite anche nei ricoveri di sollievo.
L’infermiere ha un ruolo centrale in questi percorsi. Nella routine quotidiana, è lui al fianco dei genitori.
Priscilla Manfra. Assistiamo genitori alle prese con nuovi presidi e rinforziamo le competenze su quelli pre-esistenti rivedendo prassi che, con minime sfumature, possono rendere l’assistenza più confortevole. Monitorare qui un bambino, 24 ore su 24, aiuta a mettere a punto, insieme, strategie migliori. Se si riduce il tempo dell’assistenza è possibile, ad esempio, dedicarlo ad altri figli.
GV. Prendiamo S., una bambina di pochi mesi quando è arrivata qui, circa un anno e mezzo fa. Abbiamo abilitato mamma e papà, non italiani, a gestire frequenti crisi epilettiche, coinvolgendo il neuropsichiatra dell’ospedale sul loro territorio e il pediatra di libera scelta e costruendo insieme una flow chart, ovvero un flusso di azioni da eseguire, nella loro lingua [grazie alla mediatrice di supporto all’équipe, ndr].
La mamma ha potuto simulare (e anche fare sul serio, poiché S. ha avuto una crisi durante la degenza), in un luogo protetto, cosa fare, verificando, con il nostro supporto, ogni passaggio. Quando è successo a casa, ci ha chiamati e noi abbiamo attivato il pediatra ma la crisi è stata gestita al telefono evitando l’ospedalizzazione. Con un risparmio di costi per l’organizzazione sociosanitaria nel suo complesso.
PM. In molti casi siamo noi a costruire una rete di riferimenti territoriale, che spesso questi genitori non hanno o, se ci sono, sono sparsi su tante strutture. Siamo diventati figure di raccordo tra diversi interlocutori.
PM. Non si riproduce ma si declina sulle condizioni che si hanno a casa. Il bisogno dei genitori è proprio di passare da procedure cucite su un setting sterile a procedure pulite che non aumentano i rischi di infezione.
GV. Sì, alcuni dei nostri genitori hanno potuto supportare, oltre che con il loro amore e presenza, anche con le abilità acquisite, il loro bambino nei momenti di sofferenza acuta. Se si rafforza la capacità di rilevare il bisogno, capire quando c’è dolore e come intervenire su quel dolore e gestire il sintomo tempestivamente, si rende un genitore abile nell’accompagnamento ovvero durante l’ultimo tratto della vita.
GV. L’abilitazione è un percorso sartoriale e un processo che coinvolge genitori, pazienti, operatori.
Nei genitori rafforza l’empowerment e la sicurezza. Nei piccoli pazienti riduce la componente di stress e paura, poiché sono mamma e papà a curarli. Per noi operatori è un’occasione di crescita costante poiché i genitori ci insegnano strategie preziose, che possiamo adattare ad altri casi.
È a tutti gli effetti un processo di educazione e, spesso, di educazione tra pari. Ci è capitato di richiamare un genitore a supporto di un altro sia su aspetti pratici sia su aspetti educativi più ampi. Per una mamma in un momento fragile vedere come un’altra riesca a gestire la malattia di suo figlio è uno stimolo potente. Se ce la fa lei…