Questo racconto di Giovanni, volontario in Casa Vidas, mi ha immediatamente ricordato l’antica arte del Kintsugi. Rompendosi, la ceramica prende una nuova vita attraverso le linee di frattura dell’oggetto, che diventa ancora più pregiato. Grazie alle sue cicatrici. L’arte di abbracciare il danno, di non vergognarsi delle ferite, è la delicata lezione simbolica suggerita che rimanda all’essenza di Vidas.
Ci sono parole calde, e “accompagnamento” – se bene intesa – è sicuramente una di queste. Da quando ho iniziato la mia attività di volontariato, mi è sempre parsa un’espressione piena di significato, che cerco di tenere vicina, quasi a chiederle di farmi da “guida”. Mi pare restituisca molto bene il senso del nostro esserci come volontari. Seguire una persona, andare con lei come “compagno”, seppure per brevissimi tratti, a volte semplici “frazioni”, può rappresentare davvero un intimo appagamento. Non ne avevo però intuito tutta la bellezza – magari in parte anche io distratto dalla visione sicuramente importante ma “unilaterale” della nostra società, dove si parla di “accompagnamento” soprattutto riferendosi a invalidità, assegni o indennità – fino a quando ho avuto la fortuna di fare un’esperienza più lunga e diretta. Chissà, forse questa parola ha bisogno di essere “lavata” affinché recuperi tutto il suo calore.
In questi ultimi mesi l’incontro con un ospite della casa, il dono della sua fiducia e della sua amicizia semplice e spontanea, senza sovrastrutture, il riuscire a ritagliarsi qualche visita “extra turno”, tutto ha concorso nel confermarmi la profondità e il piacere di condividere una tappa con chi ha incrociato il mio cammino. Nel tempo che ci è stato donato, giorno dopo giorno, lui si è aperto, mi ha accolto, quasi a invitarmi a fare un po’ di strada insieme. E così ci davamo degli obiettivi semplici, fatti di cose della quotidianità – organizzare un pranzo, incontrarci per una breve chiacchierata, telefonarci e chiederci come avessimo trascorso la giornata, augurarci la buona notte – in modo che questi gesti diventassero la nostra lingua comune.
Coltivare e condividere queste piccole gioie, che davano il senso all’accompagnamento, mi ha confermato che possiamo ampliare sempre la capienza del nostro cuore, fare spazio. Sì, mi sono accorto che accompagnare significa anche fare e dare spazio, rendersi conto di come la nostra capacità di accogliere apra alla vita, fino alla sua conclusione.
Sapevo benissimo che non sarebbe durato troppo a lungo, e credo lo sapesse molto bene anche lui. Non importava che le nostre “abitudini”, all’avvicinarsi della fine, si diradassero sino a scomparire: nonostante l’inevitabile malinconia, tutto questo non ha spostato di una sola virgola il senso del nostro stare insieme. Come recita uno splendido haiku, che faremmo bene a tenere sempre presente, “In ogni benvenuto c’è sempre un addio”, ma è vero pure il contrario: in ogni addio è nascosto un benvenuto. Quindi benvenuto al prossimo incontro, benvenuto al prossimo volto, benvenuto al prossimo accompagnamento, forse un po’ più consapevole di quanta ricchezza e potenza questa parola nasconda.