Scegliere di porre fine alla propria esistenza anticipatamente e consapevolmente, a causa di una malattia, menomazioni o condizioni psichiche che hanno minato la qualità e la dignità della propria vita, divenuta per la persona intollerabile: questo è il significato profondo dell’eutanasia. Un concetto ben diverso da sedazione palliativa e sospensione dei trattamenti, su cui è opportuno soffermarsi per evitare confusioni e fraintendimenti.
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Il termine “eutanasia” significa letteralmente “buona morte” (dal greco eu-thanatos) e indica l’atto di procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di una persona che ne faccia esplicita richiesta. La Federazione Cure Palliative ne fornisce una spiegazione ancora più esplicita definendola come “l’uccisione di un soggetto consenziente in grado di esprimere la volontà di morire”. La richiesta di eutanasia, nei paesi dove questa pratica è lecita, viene soddisfatta dopo un percorso che permette alla persona di effettuare una scelta consapevole e libera.
L’eutanasia viene spesso utilizzata come sinonimo di suicidio assistito, sedazione palliativa profonda e sospensione dei trattamenti, ma tale non è: sulle loro differenze è opportuno porre massima attenzione.
Il suicidio assistito è l’atto del porre fine alla propria esistenza in modo consapevole mediante l’autosomministrazione di dosi letali di farmaci da parte di un soggetto che viene appunto “assistito” da un medico (in questo caso si parla di suicidio medicalmente assistito) o da un’altra figura che rende disponibili le sostanze necessarie. Di regola avviene in luoghi protetti dove soggetti terzi si occupano di assistere la persona per tutti gli aspetti correlati all’evento morte (ricovero, preparazione delle sostanze, gestione tecnica e legale post mortem).
Per quanto le due pratiche siano accomunate dalla volontarietà della richiesta e dall’esito finale, ci sono almeno due sostanziali differenze tra eutanasia e suicidio assistito:
In entrambi i casi, queste richieste vengono sottoposte alla valutazione di commissioni di esperti e al parere di più medici, diversi da quelli che hanno in cura il paziente. Solo dopo un’accurata analisi delle sue condizioni cliniche, della compromissione della qualità della sua vita e della sua piena libertà decisionale, gli viene data la possibilità di accedere agli interventi, solo nei paesi in cui sono consentiti (l’Italia non è tra questi).
La sedazione palliativa è la riduzione intenzionale della vigilanza con mezzi farmacologici, fino alla perdita di coscienza, allo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo, altrimenti intollerabile per il paziente, nonostante siano stati messi in opera i mezzi più adeguati per il controllo del sintomo che risulta quindi refrattario.
Ci sono almeno tre elementi che differenziano la morte medicalmente assistita dalla sedazione palliativa profonda.
Nel suo documento “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”, il Comitato nazionale di bioetica ha ribadito l’impossibilità di assimilare le due pratiche, ma anzi ha evidenziato il ruolo delle cure palliative in termini di alternativa alla scelta di percorsi eutanasici, sottolineando che, prima di considerare per chiunque l’accesso a interventi di anticipazione del morire, debbano essere offerti specifici percorsi palliativi, che ogni paziente è libero di accettare o rifiutare. In questo modo si potrebbe impedire che scelte di morte medicalmente assistita siano la conseguenza di un abbandono o comunque di un’inadeguata assistenza sanitaria, specie riguardo al sollievo della sofferenza.
Infine, la sospensione dei trattamenti viene spesso equiparata ad una forma di eutanasia passiva, come se la scelta di rinunciare al trattamento implicasse sempre la volontà implicita di morire. In realtà porre attivamente fine alla propria vita è assai diverso rispetto a scegliere di rinunciare ad un trattamento, che è infatti è consentito in tutti i paesi europei, a differenza dell’eutanasia.
In Italia non è possibile effettuare né eutanasia né suicidio assistito, mentre la diffusione di queste pratiche nel resto del mondo è molto varia. In Olanda l’eutanasia è legale dal 2002 e il suicidio assistito dal 2004, anche ai minori di età superiore ai 12 anni, purché con il consenso dei genitori fino ai 16 anni. Nei Paesi Bassi devono sussistere una serie di condizioni, tra cui la piena e consapevole volontà di porre fine alla propria vita e la sussistenza di sofferenze insopportabili, nonché l’assenza di un’alternativa ragionevole. Anche negli USA l’aiuto a morire è consentito, ma solo in alcuni stati come New Jersey, Washington State e Oregon. Nella vicina Svizzera è consentito solo il suicidio assistito, le richieste sono almeno quintuplicate dai primi anni 2000 ad oggi, a causa della vicinanza geografica con l’Italia e della relativa accessibilità della pratica, che hanno indotto anche molti nostri connazionali a scegliere questo territorio per l’assunzione del farmaco letale.
In Italia praticare l’eutanasia costituisce un reato, pertanto è punibile ai sensi dell’articolo 579 (Omicidio del Consenziente) e dell’articolo 580 (Istigazione o aiuto al suicidio). Al contrario il suicidio assistito, inteso come assistenza di terzi nel porre fine alla vita di una persona malata, è legittimato, ma non praticato. La sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale ha infatti individuato quattro requisiti che possono giustificare un aiuto al suicidio:
Invece, la sospensione delle cure è un diritto sancito dall’art. 1 della legge 219/2017, che stabilisce che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”