La seconda ondata, con le maggiori libertà di movimento e socialità, ha ”colpito al cuore” la degenza dei pazienti adulti. L’hospice è stato riorganizzato dopo l’esplosione di un focolaio Covid ma, in quattro settimane, è tornato ad accogliere nuovi pazienti.
Torniamo a raccontare Casa Vidas e il modo in cui pazienti e familiari stanno attraversando questo tempo limitante e incerto, dove l’emergenza sanitaria, tornata virulenta, detta routine nuove.
Qual è stato, dunque, l’impatto della seconda ondata del Covid sull’area degenza dei pazienti adulti?
Lo abbiamo chiesto a Simona Ianna, medico responsabile di degenza e day hospice (quest’ultimo, che comprende i servizi ambulatoriali e le terapie di supporto ai pazienti assistiti a domicilio, è chiuso dallo scorso marzo).
“Dall’estate scorsa qui sottoponiamo operatori, pazienti e familiari a controlli periodici – così, il 27 dicembre scorso, abbiamo scoperto un focolaio in Casa Vidas. Coinvolti, due pazienti e il familiare di uno dei due e alcuni operatori”.
Com’è stata riorganizzata l’assistenza?
Abbiamo diviso la degenza in due ali, quella Covid (in gergo sporca) e quella Covid-free (pulita), trasferendo qui tutti i pazienti salvo i due positivi e bloccando gli accessi di nuovi malati. Abbiamo spostato gli studi medici nell’ala pulita e riorganizzato le attività quotidiane in modo che un medico e un infermiere fossero dedicati ai soli positivi, in parte per evitare contaminazioni, in parte perché l’assistenza era più laboriosa per via dell’utilizzo dei dispositivi di protezione e dalle misure di sanificazione.
Quant’è durata questa situazione?
Un mese circa – durante il quale tutti i pazienti non hanno potuto vivere gli spazi comuni. Quattro settimane di isolamento. Finché uno dei due pazienti positivi non si è negativizzato e l’altro, purtroppo, è morto, troppo debole per resistere anche al virus.
La degenza è stata colpita al cuore.
Sì, possiamo dirlo. È stato necessario cambiare le abitudini, aggiungere nuove restrizioni a quelle già imposte dalla pandemia, che ci aveva tolto volontari e attività ludico-terapeutiche. Le stanze sono diventate l’orizzonte in cui doveva svolgersi tutta la vita e questo ha reso la degenza, da ambiente di movimento e relazione, un setting più prescrittivo del domicilio, dove, se il malato è spesso confinato alla sua camera, beneficia del contatto con più familiari.
Com’è stato, in generale, l’andamento degli ingressi nell’ultimo anno?
Direi che, dopo un aumento dell’attività in primi mesi Covid, tra marzo e giugno, in cui abbiamo curato fino a 40 pazienti al mese, il numero di prese in carico si è stabilizzato sui 25 malati circa ogni mese, riducendosi negli ultimi tre mesi per malattia degli operatori.
Com’è il colore emotivo di questo hospice di necessità impoverito?
Abbiamo cercato di riempire il vuoto per conservare un colore di vita. Abbiamo rinunciato alle ferie e ai riposi e costruito momenti di distensione, il pianoforte viene suonato dagli operatori perché la musica è una medicina per il cuore e installato un maxischermo nel soggiorno comune perché i pazienti possano guardare la tv tenendo le distanze.
È difficile far rispettare le regole?
Non nego che i familiari facciano fatica, ognuno vorrebbe essere l’eccezione – con fermezza, confermiamo le precauzioni ogni volta che serve. Teniamo le distanze e facciamo tamponi con regolarità. Unica deroga, i pazienti non indossano la mascherina perché potrebbero avere problemi respiratori. Durante questo lungo inverno di chiusura, non abbiamo mai chiuso la porta al familiare, ancorché unico, perché vogliamo dare priorità al desiderio di incontrare i propri affetti. La protezione viene di conseguenza.