Nell’anno 2013, dopo che il dibattito su Eluana Englaro e Piergiorgio Welby ha infiammato talk show e prime pagine dei giornali, si può ancora dire che esista una “morte naturale”? E chi ha l’autorità per parlare del senso della morte?
Ce ne hanno parlato – più o meno a proposito – medici, prelati e soprattutto politici. Ma la tecnica, la fede e l’ideologia non possono che offrire risposte parziali e talvolta contraddittorie a una domanda che interroga invece l’interezza dell’essere umano.
Mai come in questa epoca schizofrenica in cui la morte altrui è evento spettacolarizzato e da vivere in diretta, la propria morte è un evento incidentale e rimosso. Mai come ora si fa urgente costruire una cultura della morte moderna – sempre più medicalizzata e meno acuta – che integri le promesse della scienza e la necessità di dare un senso più pieno al tempo della vecchiaia e della cronicità.
Forte di questa convinzione, Daniela Monti, giornalista del Corriere della Sera, prova a rivolgere la domanda a sei filosofi contemporanei in “Che cosa vuol dire morire“.
Ed è così che Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Vito Mancuso, Giovanni Reale, Aldo Schiavone ed Emanuele Severino, si misurano con domande che spaziano dal significato della propria morte al rapporto tra chiesa e scienza e tra etica e tecnologia, passando per temi di grande attualità quali testamento biologico e scelte di fine vita. Un libro appassionante che, fondandosi sul pensiero di grandi maestri contemporanei, invita a sviluppare un pensiero proprio, nella certezza – per dirla con Severino – che
la filosofia autentica non sta sopra le teste degli individui: sta invece dentro di loro, perché qualsiasi individuo, giovane, vecchio, idiota, intelligente ha dentro di sé quella sapienza o quel contenuto che poi la filosofia si propone di esprimere.
Buona lettura.