“Mangia… mangia… mangia amore mio!”. Questa è una frase che da tanti anni sento ripetere insistentemente al proprio caro affinché si nutra per reagire alla malattia e al deperimento organico. Spesso questa esortazione nasce dal bisogno del caregiver di voler contribuire attivamente al rallentamento del decadimento fisico sempre più evidente con il peggioramento della malattia mentre la silhouette della morte si delinea progressivamente.
Nella nostra cultura mediterranea il cibo è sempre stato considerato un valore importante perché portatore di vita e di piacere rispetto ai tempi passati caratterizzati dalle carestie e dalla povertà. Pertanto nelle ricorrenze come il Natale, la Pasqua o altre feste ci raduniamo intorno a una tavola imbandita per consumare e condividere un pasto luculliano, spesso eccessivo; questo rito si è tramandato negli anni per debellare paure e fantasmi arcaici.
Il cibo rappresenta anche un aspetto psicologico e relazionale fondamentale nella relazione madre-bambino dove pone le fondamenta della fiducia e della capacità d’amare e di donare del bambino stesso da adulto, in quanto precedentemente amato e accudito “gratuitamente”. L’alimentazione rappresenta nei primi anni di vita un legame inscindibile con la nostra esistenza sia per il suo aspetto istintuale di sopravvivenza sia per quello psicologico legato al principio del piacere sia infine per quello relazionale, cioè il sentirsi oggetto d’attenzione da parte del caregiver. Questa intima esperienza rimane incisa in modo indelebile nel nostro profondo psichico e da qui scaturiscono comportamenti in direzione della dipendenza o dell’autonomia dell’individuo, e le persone che sono state nutrite in modo poco attento ai loro ritmi e bisogni di solito soffrono di disturbi alimentari nella vita adulta. Il cibo può quindi rappresentare fonte di piacere o di frustrazione in base all’associazione affettiva e relazionale, come il sapore della minestrina che è migliore se preparata con cura e attenzione e presentata con garbo.
Per questa ragione l’alimentazione nelle cure palliative dovrebbe essere oggetto di particolare attenzione nella sua preparazione e distribuzione, perché elemento multifattoriale che veicola il valore della persona e dell’attenzione che si ha per essa. Quando si è in uno stato fisico e psichico di fragilità come nella malattia terminale, l’accudimento da parte degli altri diventa un fattore terapeutico, di cui il cibo rappresenta l’aspetto relazionale, che permette di continuare a provare piacere e rispetto dell’altro. Ognuno di noi ha una propria storia collegata anche a una scala di sapori e di gusti che sono cambiati nel tempo, per questa ragione sarebbe opportuno inserire nei dialoghi dell’assistenza anche quello del gusto. È importante in questa fase della vita, dove ci si sente deboli ed isolati poter alimentare la forza del ricordare, perché rinsalda i legami famigliari e ci fa sentire meno soli: così come si fa nella pet therapy, dove attraverso l’incontro con un animale a noi caro, possiamo ricordarci dei bei momenti passati in loro compagnia. Attraverso il ricordo di un sapore si possono rivivere stati di piacere, come per esempio quello dell’anguria associata al ricordo dell’estate o quello del caffè latte collegato al piacere del ricordo del risveglio in presenza della propria madre.
Il cibo è sempre collegato all’aspetto vitale dell’esistenza e pertanto appena la persona è liberata dal dolore lo utilizza per condividerlo con i propri cari. Un elemento fondante della personalità è quello dell’autonomia e quando questa viene meno subentra la frustrazione del proprio valore esistenziale che si percepisce sminuito, anche a causa della perdita del proprio ruolo sociale. Si è sempre più nelle mani degli altri, mentre il cibo dovrebbe essere espressione della propria dignità: si dovrebbe essere sempre in grado di poter rifiutare una pietanza o di ricevere un piatto non preparato in modo industriale o servito frettolosamente, ma servito ad personam con attenzione alla preparazione e alla relazione. È importante privilegiarne l’aspetto soggettivo dove poter coltivare l’aspetto residuale del piacere dei sensi come la vista, l’odore, il gusto… la vita!
Condividere il cibo a noi particolarmente caro con i propri famigliari, meglio se in un clima affettuoso, ci fa sentire meno soli con i nostri dolori e le nostre paure alimentando il senso del gusto alla vita che ancora ci appartiene e a cui apparteniamo.