La comunicazione è un aspetto fondamentale della nostra vita sociale. Spesso, però, ci troviamo ad affrontare situazioni in cui la comunicazione verbale non è possibile o non sufficiente per esprimere pensieri ed emozioni. In questi casi, è necessario trovare una soluzione alternativa, un modo di comunicare senza parlare. È davvero possibile comunicare quando non si possono più utilizzare le parole? La risposta è sì! Siamo spiazzati, dobbiamo inventarci un nuovo linguaggio attraverso altri canali, oltre la logica, oltre gli sguardi, oltre il contatto fisico. Ma nulla è impossibile!
Ci sono molte patologie che possono influenzare la capacità di una persona di comunicare verbalmente. Ad esempio, persone con paralisi cerebrale, malattie neurologiche, disturbi dello spettro autistico, disturbi del linguaggio e della comunicazione. In tutti questi casi, i pazienti possono avere difficoltà nell’usare le parole per esprimersi. Tuttavia, ci sono molti modi diversi in cui queste persone possono comunicare senza parole… Non resta che trovare la soluzione più adatta in base al caso specifico.
La comunicazione senza parole è un modo importante di esprimersi e di comunicare con gli altri, per le persone affette da patologie che limitano la comunicazione verbale. Esistono infatti molti modi diversi per comunicare senza parole e ogni persona ha bisogno di un approccio di comunicazione personalizzato, che risponda alle sue specifiche esigenze e capacità, ma che le permetta di comunicare in modo efficace con il mondo che la circonda.
Di seguito alcune delle soluzioni non verbali più utilizzate:
Anche il canto, e più in generale la musicoterapia, può rappresentare una valida alternativa alla classica comunicazione verbale. Di seguito vi raccontiamo l’esperienza di Marina, psicologa di VIDAS, che ci parla proprio della sua comunicazione “cantata” con una paziente, la signora E..
“Sono entrata nella stanza della paziente per la prima volta in presenza del compagno, ma non ho avuto modo di interagire con lei. La seconda volta la signora era sola e aveva gli occhi chiusi, ma – nonostante non avessi fatto alcun rumore – si è subito accorta della mia presenza accanto al suo letto. Mi ha guardato, dapprima con sorpresa, poi fissandomi molto intensamente e a lungo. La sua malattia la costringeva quasi completamente immobile e muta. Sembrava, tuttavia, abbastanza lucida e consapevole e le infermiere mi hanno poi confermato che capiva il mondo esterno anche se non riusciva a comunicare, era come prigioniera del suo corpo.
Le usciva a tratti dalla bocca un rumore prolungato, un lamento o un suono disarticolato che, udito dal corridoio, metteva a disagio nella sua incomprensibilità. Poteva essere un segnale di malessere, di paura, di angoscia, forse di richiamo o forse solamente l’unico suono, volontario o no, che riuscisse ad emettere.
Un po’ le parlavo, un po’ restituivo il suo guardarmi e le sorridevo. A un certo punto le ho chiesto se volesse dirmi qualcosa e lei ha annuito più volte col capo, annuiva e mi guardava senza poter parlare né esprimersi in alcun modo. Le volte successive che sono tornata da lei la trovavo sempre assopita, ma – al mio silenzioso avvicinarmi al suo letto – apriva subito gli occhi, piano piano mi metteva a fuoco e mi guardava con consapevolezza.
Poi è capitato che cominciasse a lamentarsi con quel suo suono uniforme, prolungato, continuo, che non sapevo come decifrare. D’istinto, così, senza pensarci, mi è venuto di cantare. Sommessamente iniziai a cantarle davanti al viso la prima canzone che mi è venuta in mente. Io sono terribilmente, terribilmente stonata e dopo qualche attimo mi sono chiesta se non stessi così peggiorando la sua agonia… ma la signora E. invece si quietò. Mi guardava e ascoltava. Terminata la canzone lei fece cenno di riprendere il suo lungo, ininterrotto suono, così ricominciai subito a cantare. Lei taceva e mi guardava.Andò così quella volta e tutte le successive. Il canto fu l’unico modo per farci compagnia, io e la signora E. e, nell’intimità della stanza, mi è parso quasi di comunicare con lei”.