Comincia in Sicilia la storia “delle due Marianne” – nonna e nipote – affonda le sue radici nelle scampagnate estive, nella farina con cui facevano il pane e nel calore di casa.
“La sua dolcezza e la sua vicinanza le ho sentite dal primo momento, mi chiamo Marianna anche per questo”, sorride un po’ commossa Marianna, 47 anni, mentre ricorda la nonna che l’ha cresciuta e che ha deciso di accompagnare fino alla fine in casa sua.
“Mia nonna Marianna era in una casa famiglia a Pavia. Quando abbiamo capito che stava peggiorando mi sono detta che non l’avrei lasciata sola come era successo a mio padre, che è morto in solitudine nell’hospice di un ospedale”.
Era giugno 2021, il mondo era ancora sottosopra per la pandemia di Covid-19 e l’accesso alle strutture ospedaliere era molto limitato. Marianna non aveva la possibilità di andarlo a trovare e stargli accanto come avrebbe voluto. È un’esperienza che la segna molto e la porta a prendere una decisione netta quando pochi mesi dopo a stare male è sua nonna: assisterla a casa.
“Mia nonna è stata un po’ una mamma per me e volevo accudirla – come adesso con il mio lavoro di doula mi prendo cura delle neo mamme – fino alla fine della sua vita. Glielo dovevo, dopo tutto quello che ha fatto per me. Si è spenta pian pianino nel calore di casa e credo che tutti hanno bisogno di questo, di poter tenere la mano di chi amano fino all’ultimo. È stata un’esperienza impagabile.”
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Marianna era sicura di voler portare a casa sua nonna…ma come fare?
“Come dicevo, mia nonna viveva in una Casa Famiglia a Pavia. Era molto carina, nel verde, ma piena di barriere architettoniche e senza abbastanza personale per poter seguire tutti i nonnini come avrebbero dovuto. Inoltre c’era il Covid, quindi spesso mi sono ritrovata a salutarla dalla finestra. Non volevano nemmeno che la portassi fuori, neppure per la messa, che per lei – molto cattolica – era un momento fondamentale. Non è stato semplice.”
Marianna decide di rivolgersi al suo medico curante per spiegargli la situazione e chiedere un consiglio. “Volevo sapere come fare perché mia nonna, che ormai avevo deciso sarebbe venuta a vivere da me a Milano, aveva delle cure in corso a Pavia. Mi disse che potevo chiedere assistenza domiciliare ma dovevo rivolgermi al comune di Milano, dove avrebbe avuto la nuova residenza, e mi disse anche che ha Milano c’era VIDAS. Non avevo mai sentito nominare prima l’organizzazione e all’inizio non capivo bene cosa potessero offrirmi. Però poi ho pensato che se già mi offrivano gli ausili per tenerla più comoda a casa, come il letto articolato o la sedia comoda per lavarla, era un ottimo punto di partenza!”
Quando Marianna torna a casa per qualche giorno rinasce, è felicissima.
Dopo qualche settimana capisce che si tratta di un accompagnamento alla fine, scuoteva la testa e diceva a sua nipote “me ne devo fare una ragione io e te ne devi fare una ragione tu. Io ho visto nascere mio figlio, la figlia di mio figlio e i suoi figli. Non posso desiderare altro per la mia vita.”
Poco dopo l’arrivo di nonna Marianna a casa si attiva l’assistenza di VIDAS. “È stato tutto molto fluido, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, tutto si è incastrato bene,” ricorda la nipote. “Vedevo che mia nonna si sentiva coccolata, perché un giorno veniva la dottoressa, un giorno l’infermiera, un giorno il logopedista, continuava a ringraziare sempre tutti,” dice sorridendo.
Con un’operatrice in particolare si crea un bel legame durante le settimane di assistenza. “Emanuela [infermiera VIDAS] è stata molto empatica, cordiale, discreta. È essenziale quando entri in una famiglia, anche io cerco di essere così quando entro in una nuova famiglia come doula, entro in punta di piedi perché sto entrando in un’intimità che non la mia, ed Emanuela lo ha fatto esattamente come avrei voluto. C’è stato tanto supporto emotivo, innanzitutto la dolcezza verso mia nonna, ma anche pratico: mi aiutava con il sollevatore e gli altri strumenti.”
Non succede sempre di essere accolti così spontaneamente da una famiglia, ma quando succede si crea un’intesa preziosa.
“C’è stata un’intesa immediata”, conferma Marianna. “Parlavamo un sacco e anche la nonna era contenta quando la vedeva. Nell’anno e mezzo che è intercorso dalla fine dell’assistenza ci siamo sentite diverse volte e ho avuto modo di rivederla quando sono andata in VIDAS a riportare alcuni ausili che mi erano stati donati per assistere la nonna.” A creare questa intesa è stato un sentire comune:
“Accompagnare è stato il filo conduttore della mia vita, così come della sua. Ce lo siamo dette, che siamo in qualche modo lo specchio una dell’altra. Io accompagno alla vita, Emanuela accompagna alla morte.”
Accompagnare alla morte è difficile. Prendersi cura delle persone nella fase terminale della vita significa anche riconoscersi a volte “impotenti – come ripete spesso Emanuela – perché l’incombenza della morte fa paura”.
“La morte poi è scomoda – aggiunge Marianna – e anche fartene carico. Sei impotente davanti alla morte e te ne devi fare una ragione. Accettarlo è difficilissimo. Capisco le persone che devono accompagnare, le rinunce che devono fare e anche con il migliore dei sostegni – come mio fratello e la sua splendida moglie – è difficile.” Da cosa dipende questo taboo? Secondo Marianna è intergenerazionale:
“Noi adulti abbiamo paura della morte, siamo spaventati dalla morte, di conseguenza la facciamo vivere così anche ai nostri figli, come qualcosa di cui avere paura.
Ma la morte è naturale e spero davvero di aver passato questo messaggio ai miei figli, perché non voglio che anche loro crescano spaventati”.