Come un viandante sul cammino della vita, la Fondazione Giancarlo Quarta e la sua instancabile guida, Lucia Giudetti, si sono inoltrate entro il sentiero forse più impervio. Coniugare infatti la propria missione, alleviare la sofferenza emotiva dei malati gravi migliorando la relazione tra medico e paziente, con il soggetto bambino, è quanto di più difficile si possa immaginare e non solo per le complicanze emotive.
Il primo tratto è stato percorso nell’ottobre del 2015 quando sono stati chiamati medici e operatori sanitari a gettare uno sguardo sulla sofferenza emotiva del bambino malato e della sua famiglia. Otto mesi dopo e grazie al lavoro di èquipe di 90 medici coordinati dalla Fondazione, quello sguardo si è trasformato in un atto concreto, la Carta dei diritti del bambino, che ora si può sottoscrivere sul sito della Fondazione Giancarlo Quarta Onlus.
Non un decalogo di cura, non una guida all’intervento su specifiche situazioni patologiche, ma una carta d’intenti che impegna medici e personale sanitario d’ogni dove a curare e prendere in carico i bambini e le loro famiglie considerando i pazienti anagraficamente minori come soggetti della relazione di cura, da coinvolgere con il linguaggio e i comportamenti. Con un assunto: il bimbo ha bisogno di capire, d’essere coinvolto nel percorso di cura attraverso l’uso di un linguaggio accessibile. Solo così si sentirà davvero protetto e saprà affrontare e collaborare alla cura per recuperare condizioni di normalità e massima felicità possibili.
Sui punti della Carta, una premessa e cinque parole chiave di un ideale percorso (l’informazione/spiegazione, l’assistenza/accompagnamento, il sorriso/speranza, l’accoglienza/ascolto, la guida alla decisione/autonomia d’azione) si sono confrontati medici, psicologi, psichiatri, ricercatori.
C’eravamo naturalmente anche noi di Vidas con il nostro presidente de Bortoli, che ha ricordato a tutti i presenti la figura di Giovanna Cavazzoni e la Casa Sollievo Bimbi che tra due anni ospiterà piccoli malati e i loro familiari.
Una sorta di confronto “a cuore aperto” intessuto da testimonianze, su tutte quella accorata recata di persona da Adele Melzi, genitrice di una bambina affetta da leucemia che ha trovato nella relazione con i medici e l’intero personale la forza di superare le barriere non solo del suo male, ma di una primigenia chiusura al dialogo della figlia:
Passo dopo passo siamo riemerse dall’abisso- ha confessato la mamma- ciò non esime dallo choc, dal dramma di un figlio malato, ma rende la sofferenza meno acuta, dona forza e volontà. Poco per volta la disperazione lascia un varco alla fiducia. Pensi che insieme ce la si può fare e così per noi è stato.
Una traccia non solo emozionale, ma di straordinaria lezione terapeutica, quella offerta dalla giovane madre Adele, sulla quale si sono inoltrati i partecipanti al confronto. Impossibile, in questa sede, riassumere i tanti stimoli offerti. Valgono alcune osservazioni generali, a partire dalla tenacia con la quale gli operatori sul campo operano in condizioni talora difficili e sempre ad alta intensità emotiva.
Non siamo chiamati a far miracoli, ma a lavorare, giorno dopo giorno, senza lasciarci sopraffare
è il messaggio di Momcilo Jankovic che lavora nel reparto di ematologia pediatrica entro le mura del San Gerardo a Monza e che quotidianamente sperimenta che cosa significhi capacità d’ascolto e di comprensione; è la voce di Alberto Giannini, responsabile del reparto di Terapia Intensiva pediatrica del Policlinico di Milano che ha svelato quanto grandi siano i ritardi di un sapere medico che sino allo scorso anno teneva fuori dalle scuole di specializzazione in anestesia i temi della comunicazione con i malati e le famiglie. Di pari passo con un Paese reso insensibile da mille frastuoni e che poco o nulla sa del disegno di legge in discussione al Senato per aprire le porte ai genitori nei reparti di terapia intensiva. Una presenza preziosa, come hanno raccontato per vie diverse i tanti e appassionati interventi, perché spalancare quelle porte significa regalare speranza, sorriso vero, riconoscimento dell’io, tanto più se quello di un bimbo; significa informare e coinvolgere i genitori e far sì che le eccezioni si trasformino in regole.
Non è facile, come ha ricordato nelle battute finali Carlo Clerici, pediatra oncologo dell’Istituto dei Tumori. Meglio, meno difficile sarebbe se smettessimo di considerare di volta in volta l’ospedale solo come una fabbrica o un’azienda che eroga prestazioni. Certo ciò è, ma ci piacerebbe pensare anche a un luogo dove la cura si accompagna all’ascolto entro un orizzonte culturale, forse la parola spaventa, dove la cultura diventi davvero un modello.