Libro di Gianluigi Peruggia. Con prefazione di Mario Delpini. Recensione di Giuseppe Ceretti.
Gianluigi Peruggia è presbitero della diocesi di Milano. Un prete, che ha fatto dell’espressione “prendersi cura” uno dei caposaldi del suo magistero, dedicandosi per anni all’assistenza spirituale in tali estremi frangenti.
Con passione e pari sensibilità, ha accettato una sfida con sé stesso e con le fondamenta del suo magistero. Talmente ardua da chiamare in causa il decalogo biblico. Avete capito bene, i dieci comandamenti riletti in chiave terapeutica.
Un atto di coraggio intellettuale, sia scritto con laiche parole, che non ha nulla di verità rivelata, né la pretesa di coprire con il mantello (visto che di pallium si tratta) della dottrina il tratto ultimo dell’accidentato percorso della vita umana. Il propellente di tanta audacia, insieme laica e religiosa, è nell’affetto, scrive nella prefazione l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, in quella misteriosa forza di ostinazione che è il nerbo del prendersi cura ovvero “offrire luoghi e condizioni perché il caso sia persona e il numero sia l’irripetibile”.
Non è un caso dunque che l’autore all’inizio di un tale viaggio si riferisca al decalogo parlando di “dieci parole” in luogo di “comandamenti”, in nome della valenza sociale della legge mosaica, destinata più a una comunità di persone che ai singoli.
Il viaggio del partigiano delle cure palliative, l’appellativo mi è gradito confessa l’autore, procede con identico metodo da un breve commento al testo biblico, irrorato poi da spunti di cura sottesi in ogni comandamento. Così il monoteismo religioso del non avrai altri dei di fronte a me, si fa spunto per porre al centro il malato come essere unico e irripetibile, una comunità di cura che copre con il pallium i diversi bisogni di chi soffre.
Allo stesso modo il “non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio” si fa richiamo al realismo, facendo scudo a una medicina che porti con sé un pensiero magico di onnipotenza. O, ancora l’onora tuo padre e tua madre riconduce all’esigenza di conservare la dignità personale, di trovare una nuova familiarità con i propri cari, con gli amici, nel processo di cura.
Lasciamo ai lettori l’ulteriore piacere di scoprire questa originale e appassionata riscrittura (non si inquieti l’autore, la blasfemia è solo mia).
Ci limitiamo a osservare quanto sia largo in siffatto stimolante viaggio il “mantello terapeutico” da qualunque punto di vista lo si guardi. S’intende se lo si vuol vedere. Scrive nelle ultime pagine Perruggia:
“Ciò che caratterizza le Cure Palliative è l’accettazione del limite umano insieme alla scelta di condividere per quanto possibile con la persona malata e con i suoi cari il tempo della terminalità”.