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24.10.2021  |  Aggiornamenti

Il futuro? Una rete integrata di cure palliative

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Con Luciano Orsi parliamo della disciplina medica portatrice di una visione olistica e multidisciplinare, modellata sull’unicità della persona. In equilibrio tra l’ottimismo dei risultati raggiunti e la consapevolezza che la copertura del
bisogno richiede ancora tempo e impegno.

Sono state riconosciute dall’Organizzazione Mondiale della Sanità –ed è la fine di un’evoluzione culturale lunga un trentennio– come diritto fondamentale dell’umanità. Quanto, però, siamo lontani dall’accesso universale alle cure palliative, anche in Italia?
È la domanda con cui inizia lo scambio, vivace e articolato, con Luciano Orsi, medico –rianimatore prima e palliativista poi, in un passaggio che è una rivoluzione copernicana e un cambio di paradigma– e oggi direttore scientifico della Rivista Italiana di Cure Palliative. Il fervore che anima Orsi parlando di cure palliative nasce dalla consapevolezza che, se non si è più “quelli della morfina e della manina” e le cure palliative sono sempre più percepite come “cure complesse e specialistiche che richiedono professionisti formati e competenti”, tanto resta da fare nella creazione della rete territoriale.

“Dall’approvazione della legge 38, nel 2010, è indubbio che le cure palliative si siano diffuse, molto e su più livelli. Sono nate nuove modalità operative e nuovi soggetti, pubblici, privati e loro ibridazioni, con un significativo crescere degli enti di Terzo Settore. I centri sono aumentati e sono stati potenziati: oggi abbiamo ufficialmente 303 hospice in Italia censiti dal Ministero, numero senz’altro significativo. Ancora: unità operative e enti che erogano cure palliative domiciliari, anche se più difficili da censire perché capita che le Regioni abbiano codifiche difformi (a volte assimilano cure palliative e assistenza domiciliare, ADI, che è circoscritta, viceversa, alle patologie croniche e post-acute) annoverano almeno 500, 600 soggetti. Infine, si sono diffuse attività collaterali allora embrionali: consulenze specialistiche in ospedale, ambulatori specialistici in cure palliative, collaborazioni con le RSA e RSD. È cresciuta la collaborazione con i medici di famiglia, specie i più giovani, grazie al venir meno di tante barriere culturali.

Il trend è chiaro

Direi di sì. Nella discontinuità e, in parte, scarsa capillarità, l’aumento è rilevante, i malati vengono presi in carico sempre più precocemente e, lentamente, si diffondono anche le cure palliative pediatriche dove, ben lungi dal coprire il fabbisogno, c’è stato comunque un giro di boa. Ultima, l’attenzione dei media è cambiata, il tema è più presente in tv, alla radio, sulla stampa, fioriscono spazi in cui si raccontano storie di malati in fase avanzata e terminale di malattia. Penso anche a blog o canali social che documentano la caduta di un tabù. Si può parlare. Della morte e del morire, di fine vita.

Come si inserisce in questo panorama la legge 219?

Va da sé che la legge 219 non è stata scritta per le cure palliative ma l’articolo 2 è di fatto dedicato ad esse e Pianificazione Condivisa delle Cure e Disposizioni Anticipate di Trattamento (articoli 4 e 5) riguardano strettamente il fine vita, oggetto di una legge ad hoc. Un cambio di mentalità eclatante.

Quali sono oggi le opportunità per i palliativisti?

I palliativisti hanno già dato prova di poter intervenire su malattie complesse gestendo sintomi e eliminando la sofferenza e, non ultimo, costruendo uno spazio di comunicazione con paziente e famiglia. L’emergenza Covid-19 ha persino potenziato la conoscenza all’esterno: i palliativisti hanno affiancato gli specialisti quando, nella drammatica situazione degli ospedali, hanno dovuto gestire i reparti Covid e hanno dovuto confrontarsi con la morte e le sofferenze che la precedono. Dove mancavano formazione e competenza, il supporto dei palliativisti è stato fondamentale.

Come ha reagito alla pandemia il mondo delle cure palliative?

Con il buonsenso e, dove si è potuto, con coraggio. Ridotti al minimo gli accessi nelle case, abbiamo constatato, sorpresi noi stessi, che anche il telefono poteva essere una risorsa per le famiglie. Poter parlare con persone conosciute, tenere il filo e condividere la gestione delle terapie ha permesso di tamponare il vuoto, insostituibile, del contatto umano. Abbiamo anche giocato la partita: molti hospice hanno accolto malati Covid-19, alcuni diventando Covid-dedicati così come non poche attività domiciliari. Non possiamo escludere che succeda di nuovo, purtroppo – e allora saremo più pronti e avremo un posto anche nelle maxi emergenze.

Allargando lo sguardo dalla neocreata scuola di specialità, quali sono oggi i percorsi possibili e come li giudica?

La scuola di specializzazione, giusto riconoscimento della specificità del medico palliativista, partirà nell’anno accademico 2022/2023 in cinque o sei università. D’altra parte, tutte le figure in équipe vanno formate, dagli infermieri agli OSS, dagli psicologi ai fisioterapisti e agli assistenti spirituali. Oggi ci sono master di primo e secondo livello per percorsi finalizzati a occuparsi di malati inguaribili. Allo stesso tempo, cresce il riconoscimento dei colleghi: si entra nei percorsi universitari e prelaurea, gli studenti vengono alfabetizzati al linguaggio delle cure palliative.

Una buona contaminazione. E se potessimo fare un salto avanti di dieci anni, cosa si aspetta di vedere?

Tra dieci anni mi auguro che esista in Italia una rete integrata di cure palliative che raccolga insieme una pluralità di servizi oggi spesso isolati tra loro, con hospice e servizi sul territorio per ogni città, provincia e regione a collaborare per garantire omogeneità di assistenza. La volontà deve essere politica e amministrativa perché soltanto a questo livello può realizzarsi in ogni territorio un coordinamento efficace della rete locale. Ancora, mi piacerebbe che studenti di medicina e psicologia avessero nel percorso formativo moduli di cure palliative che sono sì un mestiere specialistico, ma anche una competenza di base irrinunciabile. Penso alla comunicazione con i pazienti e a una cultura, non solo di fine vita, che riporti alla condizione di persone prima che malati.

Nell’ipotesi di rispondere meglio al bisogno, ci saranno abbastanza operatori?

Allo stato attuale non ci sono abbastanza risorse e servono più forze giovani. Mi sento di fare un appello a chi pensa a una professione di cura: le cure palliative hanno due prerogative da non sottovalutare. Sono un ambito in cui si diventa molto rapidamente autonomi e la qualità della gratificazione è incommensurabile – e penso alla relazione con pazienti e famiglie. Ho avuto più abbracci in sei mesi da palliativista al domicilio che in vent’anni da rianimatore in ospedale.

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