Dopo avervi portato la scorsa volta a riflettere sul concetto di dignità, ho pensato di preparare il riassunto di una pubblicazione del NEJM (New England Journal of Medicine) relativa al vocabolario medico, al valore delle parole e alla industrializzazione della medicina. I due autori, Pamela Hartzband e Jerome Groopman, lavorano a Boston e mi hanno stupito il tono molto caldo e partecipato dell’articolo e il richiamo ai valori tradizionali – forse anche un po’ idealizzati -della professione da parte di due statunitensi.
Buona lettura!
Il nuovo linguaggio della medicina
Durante il primo anno della facoltà di medicina abbiamo passato ore ad apprendere termini nuovi, quasi come stessimo studiando una nuova lingua. Parole che sembravano straniere rappresentavano in realtà cose famigliari: orecchioni erano parotite, formichine erano parestesie e così via. Adesso ci troviamo nuovamente ad apprendere un nuovo vocabolario della medicina pieno di parole che sembrano famigliari ma che sentiamo come straniere. I pazienti non sono più “pazienti” ma “customers” o “consumers”. Medici e infermieri si sono trasformati in “providers”. Questi termini, adottati dai media, dai giornali medici e anche negli ospedali, non sono però sinonimi. Paziente deriva da patiens, cioè sofferente, tollerante; dottore da docere, insegnare; nurse (infermiere) da nutrire e questi termini sono stati usati per oltre 3 secoli.
Che cosa ha indotto introduzione di nuovi vocaboli in medicina? Essendo le nazioni in piena crisi economica, l’impegno di contenere i costi e le spese è al centro delle riforme sanitarie. Molti economisti e programmatori di sistema hanno quindi proposto di standardizzare e industrializzare la cura del paziente. Ospedali e cliniche devono funzionare come moderne imprese e termini arcaici come pazienti, medici, infermieri devono esser sostituiti con termini che si adattino al nuovo sistema.
Ma le parole, usate per spiegare i nostri ruoli, sono strumenti potenti. Esse comportano aspettative e configurano i comportamenti e le nuove parole usate in medicina hanno conseguenze importanti e negative.
Il rapporto tra medico, infermiere, altre figure sanitarie e paziente ora è visto in termini di transazione commerciale. Il consumatore o cliente è l’acquirente e il provider è il venditore o fornitore.
Il curare ha certamente un aspetto finanziario, ma questo rappresenta una piccola parte di un insieme molto più grande e, per le persone ammalate, è la parte meno importante. I termini provider e consumer sono riduttivi e ignorano la dimensione essenziale psicologica, umanistica, spirituale del rapporto, gli aspetti che tradizionalmente fanno della medicina una professione nella quale l’altruismo sovrasta il guadagno personale. Il termine provider, inoltre, è deliberatamente e straordinariamente generico e non configura alcun ruolo o capacità. Dottori , infermieri, fisioterapisti, operatori sociali ed altri possiedono specializzazioni e capacità non riconoscibili nel generico termine provider. Non c’è menzione del ruolo del medico come insegnante con capacità di spiegare al paziente le cause della malattia e i mezzi per rimediarvi, del lavoro delle infermiere con la loro esperienza ed assistenza essenziali alla guarigione. Il generico termine provider fa pensare che tutti gli operatori siano intercambiabili. Provider fa pensare che la cura sia un pacchetto preconfezionato prelevabile da uno scaffale e fornibile, “provided”, al consumatore, anziché una entità personalizzata e dinamica, esercitata da professionisti esperti e adattata al singolo paziente.
Il commercio ha come fine ultimo il guadagno di soldi. Ridurre la medicina ad economia ridicolizza il rapporto tra curanti ed ammalato. Per secoli i medici mercenari sono stati pubblicamente puniti oltre ad essere oggetto di caustiche satire e racconti, Molière e Turgenev. Questi medici hanno tradito la loro professione e noi ora dobbiamo appoggiare i medici la cui pratica, come fosse un business, ha lo scopo di guadagnare il massimo dal “cliente”?
Oltre ad introdurre nuove parole, il movimento verso la industrializzazione e standardizzazione di tutta medicina (anziché solo dei settori della sicurezza ed emergenza) ha fatto sparire alcuni termini che erano critici nella nostra professione medica. “Giudizio clinico” per esempio è diventato un termine in disuso ed è rimpiazzato da evidence based practice. Ma l’evidenza non è una novità, sono decenni che valutiamo la evidenza scientifica nella nostra pratica clinica. Ma l’esercizio del giudizio clinico, che consiste nella valutazione dei dati e nella applicazione dei risultati degli studi ad un determinato paziente, veniva visto come l’acme della pratica professionale. Ora, alcuni programmatori della sanità e anche alcuni medici, sono convinti che la cura medica sia fondamentalmente una questione di aderenza di manuali operativi contenenti linee guida, come per i programmi di fabbriche scritti da esperti. Le linee guida sono ritenute estremamente scientifiche ed obiettive. Il giudizio clinico per contro è visto come soggettivo, non scientifico, poco attendibile. Ma c’è un errore di base in questo giudizio. Mentre i dati possono sì essere obiettivi, la loro applicazione alla pratica clinica da parte degli esperti che hanno formulato le linee guida non lo sono. Che la evidence based practice codificata da linee guida abbia un core, un nucleo, strettamente soggettivo è sottolineato dal fatto che lavorando sugli stessi dati scientifici, gruppi diversi di esperti scrivono linee guida differenti per patologie anche diffuse come ipertensione o ipercolesterolemia oppure per l’impiego di screening tests per tumori prostatici o mammari . Il cutoff specifico per trattamento o non trattamento, testare o non testare, rischio contro beneficio, tutto ciò necessariamente riflette il valore e le preferenze degli esperti che scrivono le raccomandazioni. Questi valori e preferenze sono soggettivi, non scientifici.
Che impatto avrà il nuovo vocabolario sulla nuova generazione di infermiere e di medici? Riclassificare i loro ruoli come fornitori che applicano regole predefinite diminuisce la loro professionalità . Riconfigurare la medicina in termini economici e industriali, probabilmente non attrarrà pensatori non solamente esperti in scienze e biologia ma anche creativi ed indipendenti e dotati di autentico spirito umanitario e di cura.
Quando noi siamo ammalati vorremmo che qualcuno ci curasse come persone, non come clienti paganti, e che e personalizzasse il trattamento . Nonostante le propagande della cura centrata sul paziente , sostenute da coloro che promuovono il nuovo linguaggio medico, i loro discorsi spostano il fuoco dal bene per l’individuo alle esigenze e al costo del sistema. Termini industriali e di mercato sono utili agli economisti ma questo vocabolario non deve ridefinire la nostra professione. Costumer, consumer, provider sono termini che non appartengono né all’insegnamento medico né alla clinica. Noi pensiamo che medici, infermieri ed altri professionisti impegnati nella cura debbano evitare l’uso di questi termini che sviliscono sia il paziente sia il professionista e che travisano pericolosamente l’essenza della medicina.
Testo originale: The New Language of Medicine
Pamela Hartzband, M.D., and Jerome Groopman, M.D. – Beth Israel Deaconness Medical Center and Harvard Medical School – Boston
NEJM 2011;365:1372-3