Molto tempo fa, quando avevo iniziato l’attività di psicologo nel servizio di Terapia del Dolore per malati in fase avanzata, avevo notato che alcune cartelle cliniche avevano scritto a matita sul bordo la sigla “RC”. Alla domanda che cosa significasse mi fu risposto: “Rompi C____ONI”! Allora, evidentemente e drammaticamente, i familiari rappresentavano un ostacolo nella costruzione di un’alleanza terapeutica tra équipe curante e paziente.
A distanza di oltre 30 anni posso testimoniare, per fortuna, l’avvenuto cambiamento nell’atteggiamento della medicina nei confronti dei familiari del malato. Si è, infatti, capito che per aiutare la persona malata non è possibile prescindere dal suo contesto familiare. Sono i familiari più vicini al paziente, infatti, che possono meglio supportare più di chiunque altro i loro cari di fronte alla malattia cronica e terminale.
Anche in questo Vidas si è mostrata all’avanguardia fino a oggi poiché si è sempre adoperata per trasferire le cure antalgiche dagli ambulatori nelle case, organizzando un’assistenza domiciliare caratterizzata dalla presenza di équipe interdisciplinari reperibili 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno.
Oggi sappiamo che i familiari attraversano le stesse fasi psicologiche di adattamento alla malattia grave dei pazienti: rifiuto, collera, senso di colpa… Nei familiari possono assumere diversi significati, soprattutto se il familiare in questione è anche il care giver ovvero colui che maggiormente dedica tempo ed affetto all’assistenza al malato. Si tratta in concreto della persona che maggiormente condivide tutte le fasi di speranza-delusione-speranza del paziente ma è anche la persona che nel frattempo deve supportare e condividere le scelte assistenziali. E in lui/lei possiamo osservare atteggiamenti di abbandono o di protesta che altro non sono che modalità difensive dall’angoscia e dalla frustrazione che l’imminente separazione impone.
In questo periodo si è parlato molto della famiglia del malato: il 25 maggio scorso presso l’Ordine dei Medici a Milano e il 22 giugno a Roma al Congresso Nazionale dei primari oncologi Italiani. In queste due occasioni ho avuto l’occasione di illustrare e ribadire che i bisogni delle famiglie che vivono un’esperienza di malattia grave di un proprio congiunto sono anche dei diritti che noi dobbiamo impegnarci a difendere:
Oggi, dunque, possiamo affermare con chiarezza che tutto il gruppo famigliare è al tempo stesso “curante” e “paziente” e pertanto necessita di essere preso in carico dall’équipe di cure palliative in modo olistico.
Questo cambiamento di atteggiamento nella presa in carico del nucleo paziente-famiglia è indispensabile perché il care giver e la famiglia in generale possano essere una reale risorsa terapeutica per il paziente.
Queste le mie riflessioni dopo oltre 30 anni di lavoro sul campo. Voi cosa ne pensate?