A. mi osserva dal letto, con i suoi enormi occhi azzurri, mentre osservo a mia volta le foto sul suo comodino. “Quella lì è la mia mamma” mi dice indicando la foto di un’anziana ed elegante signora “è morta qualche anno fa. Vuol vedere una foto mia? È di là nella cameretta”. La badante mi accompagna nella camera accanto, forse di uno dei figli ormai sposati.
La signora nella foto è bellissima, lunghi capelli biondi, un fisico perfetto. Irriconoscibile, fatta eccezione per gli occhi, azzurri ed enormi.
“In quella foto è bellissima” le dico. Provo a misurare le parole. Scelgo cautamente di usare il presente e di contestualizzare. Stare dentro la relazione, dicendo la verità senza togliere la speranza né alimentare l’illusione: una specie di equilibrismo, anche di fronte a una foto.
“La foto è di due anni fa” mi butta lì. Un tempo irragionevolmente vicino. Prima che la malattia e le terapie la devastassero era davvero una donna bellissima.
Sorride, un sorriso triste, e racconta: “Un paio di mesi fa ero al cimitero a trovare la mia mamma. Ci andavo tutte le settimane. Incontravo spesso la moglie di un signore sepolto accanto a lei. Ormai ci conoscevamo e scambiavamo qualche parola. Quella volta non ce la facevo a stare in piedi, mi sono seduta su una tomba lì vicino. La signora è passata e mi ha detto: ‘È un po’ che non vedo quella bella signora bionda che veniva sempre a trovare la sua mamma. Lei l’ha per caso incontrata?’”.
Prende fiato e mi osserva. “Non ho avuto il coraggio di dirle che ero io. Le ho detto che non l’avevo più incontrata neanche io”.
Una grossa lacrima le solca la guancia.