Michela è una nostra nuova volontaria nata dall’ultimo corso non ancora terminato. È una giovane donna, con un sorriso dolce e aperto, il suo cammino personale l’ha portata da noi. Ha iniziato lo scorso dicembre il suo tirocinio in degenza e dopo il primo turno ci ha regalato questo racconto sulla sua “prima volta”, durante la quale il tempo si dilata a dismisura e un turno sembra durare giorni, come in una sorta di “Recherche” proustiana. Ecco perché abbiamo scelto di fare con voi un esperimento: il racconto uscirà a puntate, come fosse un romanzo d’appendice…
Ieri, il 12/12/12, ho iniziato il nuovo, sorprendente viaggio che negli ultimi mesi avevo iniziato a coltivare nel cuore, a nutrire di parole, contorni, nomi, persone.
Avevo paura non fosse il giorno giusto, il momento migliore… i miei programmi della settimana si erano scombussolati quando avevo saputo della morte del fratello del compagno di mia mamma. La notizia improvvisa, la scelta di andare, partecipare ai funerali e al dolore di questa nuova famiglia, nuova per me, per Corrado antica e importante. Tutto questo mi aveva creato confusione, avevo paura di aver riunito in una giornata due momenti così forti che temevo il mio “battesimo” come volontaria potesse risentirne.
Il pomeriggio sono arrivata lanciando uno sguardo alle stanze dell’hospice come sempre faccio quando mi avvicino a Vidas. Nella sala in basso c’era molta gente, avrei disturbato? Nelle sale sopra le luci erano accese, oggi avrei visto i volti, gli oggetti, le forme che illuminavano.
Sono stata accolta, da Federica prima, da Eufemia dopo, da tutte le OSS così dolci e sorridenti e gentili.
Avevo voglia di iniziare, era tanto che aspettavo quel momento, insieme alla paura c’era un miscuglio di desiderio e emozione.
Ricordo gli occhi imploranti e dolci di una donna anziana, che mi guardava senza poter parlare. Avrei voluto stringerle la mano, ma temevo di sbagliare, forse non era quello che desiderava. Con la mano distendeva il lenzuolo e la sua coperta preferita, bianca con un arcobaleno di colori di vita, fucsia e rosa, quella piccola soffice coperta che la badante non poteva nemmeno portare a casa per un giorno per lavarla. Capivo perché: emanava calore, mi ricordava la sensazione di tanti peluches, calore, casa, compagnia. Aveva dolore alla schiena, muoveva le gambe cercando sollievo, avrei voluto cullarla e massaggiarle delicatamente le spalle. Mi sono limitata a salutarla con la mano e un sorriso appena accennato.
Poi ricordo una figlia, il racconto dell’ultimo mese che sua madre aveva passato in ospedale, in mezzo a donne anziane sofferenti di Alzheimer, senza poter dormire, senza poter riposare nella fatica della sua malattia. Era una brava sarta, ora però doveva solo cercare di tenere a riposo le mani, me lo diceva sottovoce, come se fosse un segreto tra me e lei. La madre era vitale, la vitalità era tutta nella voce, il corpo era immobile e adagiato sul cuscino.
Poi sono rimasta con Sara, la prima cosa che mi ha colpito di lei è stato l’ombretto azzurro che aveva sulle palpebre. Due piccole lune di argento e azzurro le incorniciavano gli occhi. Mi ha chiesto di sedermi sulla poltrona vicino a lei. Ha iniziato subito a raccontarmi, di suo figlio, di suo nipote, dei suoi viaggi. La testa era appoggiata sul cuscino, inclinata. Mentre parlava la faceva scivolare in modo che i nostri occhi fossero alla stessa altezza. Il maglione rosso si stropicciava nei suoi movimenti insieme alla camicia da notte rosa con il fiocco “le infermiere sono così gentili che decidono quali colori farmi mettere”. Mi sono persa nel suo racconto sulla Sicilia, in tutti i posti che ha visitato, negli orecchini blu cobalto fatti di lava dell’Etna, così simili a quelli che indossavo. E io che avevo avuto paura che potessero essere appariscenti, avevo pensato di toglierli prima di arrivare. Invece guardandoli Sara si è illuminata, le ricordavano i suoi, che ora erano a casa “Li metto con l’anello blu”. Una piccola, vaga fitta al cuore mi ha ricordato che forse non sarebbe tornata a metterli con l’anello blu.
Ho riso, guardando le sue guance color porcellana ho sentito mia nonna vicina, era meno vitale ma altrettanto dolce. I racconti fluivano come un fiume, le tre estati in Sicilia, l’orecchio di Dioniso alla luce della luna, il grande cratere attraversato a piedi, quella stanza in cui il mare “passava” subito fuori dalle finestre. Mi indicava le finestre, mi faceva immaginare come sarebbe stato se fossero state aperte e se il mare fosse stato lì, poco oltre, con il suo rumore ondeggiante e il suo profumo.