Solo con il Romanticismo il dolore interiore, la malinconia e il male di vivere trovano un loro posto nell’arte, mentre fino al Medioevo la tendenza è stata di rappresentare figure più composte e rassegnate alla sofferenza. Il dolore interiore caratterizzerà invece alcune tra le migliori opere d’arte dell’ultima parte dell’Ottocento e dei primi del Novecento, rappresentate in particolare dall’arte di Van Gogh, Munch e Kokoschka.
La prima metà del XIX secolo è caratterizzata da una rappresentazione ancora composta della sofferenza, mentre già opere come “Ofelia”, realizzata nel 1851 dal pittore preraffaellita John Everett Millais rompono gli schemi: la giovane porta i segni del dolore che l’ha portata alla follia e al conseguente annegamento scolpiti a chiare lettere sul volto.
Basta spostarsi nel tempo di pochi decenni per notare un ulteriore mutamento: l’angoscia del dolore interiore non è più un sentimento da mascherare o abbellire (innegabile la grazia che la posa quasi dormiente conferisce al dipinto di Millais), ma da gridare attraverso la tela con il tratto che si fa scattoso, il colore che aggredisce la vista dello spettatore, il soggetto che ci ferisce nel profondo.
È questa profonda afflizione dell’anima che caratterizza la pittura di Vincent Van Gogh fin dalle sue prime opere. È del 1882 la litografia su cui egli stesso incide a chiare lettere “Sorrow” (“Dolore”): ritrae la prostituta Clasina Maria Hoornik detta Sien, per qualche tempo compagna di vita del pittore, in un nudo dolente e carico di disperazione. Ma non è solo nei ritratti ed autoritratti – di cui pure la sua pittura è piena – che l’artista olandese riesce ad esprimere il suo profondo disagio interiore. Ne è dimostrazione una delle sue ultime opere, “Campo di grano con volo di corvi”, in cui il paesaggio riflette l’inquietudine del suo realizzatore e i corvi neri sono il presagio di una morte che egli stesso si darà dopo pochi giorni, lasciando il dipinto quale testamento spirituale.
Un altro artista sembra essere l’emblema della sofferenza: si tratta del norvegese Edvard Munch. Il suo dipinto più famoso è senz’altro “Il grido”, in cui è raffigurato un uomo colto in un momento di totale terrore e sconforto, emozioni che gli strappano un urlo di lancinante angoscia. Come già per Van Gogh, sono anche i colori della tela a contribuire alla sensazione che si fa strada fin nei reconditi meandri dell’animo del fruitore, lasciandolo segnato nel profondo. E nuovamente siamo di fronte ad un autoritratto, come già per “Malinconia”, in cui Munch trasporta la sua sensazione di abbattimento anche nel paesaggio che lo circonda.
Più ci avviciniamo all’evento che segna ufficialmente l’inizio del “secolo breve”, la Prima Guerra Mondiale, più il caos si impadronisce anche della rappresentazione pittorica del dolore. Ne è un esempio lampante “La sposa del vento”, dipinto da Oskar Kokoschka nel 1914. Il quadro, noto anche come “La tempesta”, è chiara espressione delle angosce dell’artista, che nuovamente si rappresenta nella grande tela con accanto l’amante Alma Mahler. Al sereno sonno della donna si contrappone l’agitarsi frenetico di lui ben raffigurato dal modo in cui convulsamente intreccia le dita nodose. Quasi un’anticipazione, il dipinto di Kokoschka, di una guerra che sveglierà la sonnolenta Europa della Belle Époque e farà contemporaneamente esplodere le avanguardie artistiche, nelle cui raffigurazioni il dolore avrà un ruolo di primo piano.