Sandor Marai ne La sorella, ci regala, con molta probabilità, le pagine più intense e realistiche sul dolore fisico e la condizione dell’infermo, col racconto della malattia e del dolore.
Uno scrittore è l’anonimo narratore che ripercorre l’esperienza vissuta durante la settimana che ha preceduto il Natale di qualche anno prima, il terzo dall’inizio della seconda guerra mondiale. I giorni passati in montagna sono il teatro dell’incontro straordinario con Z., grande musicista, ormai scomparso dalla scena. Un incontro fugace che, però, permetterà al narratore, tempo dopo, di entrare in possesso delle pagine personali di Z. Il diario è ambientate nell’Italia fascista prebellica e racconta il periodo in cui Z., colpito da un’improvvisa e misteriosa malattia, è confinato in un letto d’ospedale a Firenze.
Attorno al malato, paziente eccellente, si muovono anche quattro “sorelle”, quattro suore, diversissime nella loro apparente uniformità, le uniche di cui sono riportati i nomi per intero.
È il romanzo della malattia per eccellenza. Nelle pagine proposte, sintomi, dolori, ospedale, medici, infermieri, sono pezzi di un mosaico che raffigura l’esperienza del patire.
La malattia di Z. non è terminale, ma può considerarsi come l’atto conclusivo di un’esistenza e il principio di una nuova condizione, imprevista e obbligata.
L’insorgere del male e l’arrivo in ospedale, aprono le porte di un mondo sconosciuto, in cui gli operatori sanitari provano a lottare contro la malattia e il sofferente lotta per affrontare il nugolo di angosce sconosciute, aggressive e adombranti che lo tormentano.
Sicuramente mi sarei infuriato se a portarmi in clinica fosse stato un medico mediocre, uno sciocco pieno di boria che magari cercasse di rincuorarmi sostenendo che si trattava sicuramente di una cosa di nulla. Quell’uomo non cercò di rincuorarmi, né allora né mai; mi parlò sempre con obiettività della mia malattia e del mio destino in maniera semplice, da uomo a uomo.
Inizia così la storia ospedaliera di Z., con un medico, chiamato nel libro il Professore, che scruta l’intensità del dolore, esaminando anche i messaggi e le aspettative della mente.
La relazione tra paziente e dottore è, in questo caso, permeata dalla naturalezza del confronto tra pari. Da un lato il malato, pena che cerca sollievo, dall’altra il medico, umanità e tecnica che promettono aiuto. È il compiersi di un rapporto in cui il dare e l’avere presuppongono assoluto equilibrio. Se non ci fosse parità, la richiesta di cura sarebbe pretesa sterile e la cura diverrebbe mera riparazione.
In questo caso si assiste al miracolo dell’essere per l’altro. Ciò si avvera quando la cura e l’assistenza diventano relazione, quando anche lo stravagante Assistente, in precedenza distaccato e quasi volutamente distante, prova a donare ciò che è e non ciò che sa. E cambia tutto:
fino ad allora era stato soltanto il medico borioso, paternalista e cattedratico, l’autorità dal tono un po’ sarcastico. In quel momento mi stava concedendo quello che mi ero sempre aspettato da lui: l’immediatezza, la solidarietà calda e schietta, cose che insomma mi aveva negato. Stavamo parlando di me in quanto persona, e non solo del paziente della stanza numero sette.
Pur mediato dagli altri, quello con il dolore è, però, un rapporto in prevalenza personale.
Prende il sopravvento su tutto, cambia il corso delle ore, modifica i contenuti dell’attesa. È una forza egocentrica che riporta ogni cosa a sé: il tempo, le speranze, le conversazioni. Il tempo è scandito da due momenti: quelli estenuanti in cui impone la sua presenza e quelli di sollievo, offuscati dal suo ricordo. Le speranze sono ridotte a preghiera di liberazione, le conversazioni, a sintesi orale del patire.
La giornata muta e la malattia detta il suo ordine. Il risveglio è annebbiato a causa dei sonniferi, la mattina è dedicata ai controlli, il pomeriggio al riposo, in attesa che l’insaziabile bestia riprenda a ruggire. Non resta che entrare in confidenza con il dolore, conoscerlo, magari sfidarlo.
Conoscere il mittente, con il fine di anticiparlo, così da non essere in balìa della sua volontà, ma diventare, con l’utilizzo della coscienza, coprotagonisti di una scena ambientata nel proprio corpo.
Per ore, per lunghi periodi del giorno non dà alcun segno di vita. Il corpo è sospettoso, ma l’anima già si riprende, ha la sensazione che sia accaduto un miracolo, crede di averla scampata. E si comincia a fare progetti per la notte, o per il giorno dopo… Poi, nell’estasi del primo giorno, inaspettatamente, in modo terribile e allo stesso tempo con crudeltà infantile, il dolore colpisce al petto la sua vittima, come un adolescente brutale che si diverte con grossolana ferocia a tormentare un compagno ingenuo e incapace di reagire […]. Il corpo soffre, arde su tizzoni invisibili, stringe i denti; e l’essere umano sta da qualche parte più in là… Sembra guardare da lontano questo carnefice imprevedibile, a volte quasi con serenità e superiorità. «E allora, che cosa sai fare ancora?…» chiede l’anima. E l’aguzzino cinese si accanisce, scagliandosi sulle terminazioni nervose dello stomaco, dimostrando di sapere ancora molte varianti che il malato non può neanche immaginare.
Il dolore è infame, ma Z. non vuole ignorarne i significati. Anche quando, e lo vedremo, la morfina proverà a dargli quel sollievo indispensabile per resistere, non cesserà mai di interrogarsi sulla forma e la consistenza del suo patire.
C’è anche altro, sensi di colpa, rimpianti profondi:
Io ero stato punito – di che cosa? Dove avevo sbagliato, che cosa aveva fatto? Avevo il sospetto che tutto ciò fosse vagamente in relazione con la musica, con E., con il mio stile di vita, con i miei ritmi di valore e con tutto ciò che io ero… che si trattava, insomma, di una specie di reato complesso, di cui mi ero reso colpevole per il fatto di non aver vissuto, lavorato e amato come avrei dovuto.
Non c’è connessione tra quel male e la condotta, tuttavia Z. sfrutta la sua malattia per ripensare la propria storia, riconoscere i limiti e le bellezze da proteggere. Questa disamina è un segno ulteriore della sua vittoria, della giustezza della sfida attiva nei confronti del dolore. Ed è una vittoria schiacciante, perché le condizioni di partenza sono tutte a sfavore del sofferente. La malattia e il dolore lasciano il posto alla realtà che torna a manifestarsi. Il dolore non è vinto né da Z., né dalla morfina, ma viene ridimensionato e ridotto a presenza tollerata.
La realtà torna a provocarlo ed interrogarlo, la realtà fatta di persone (le suore che lo curano e che sono coinvolte nella sua avventura, i medici con cui intrattiene conversazioni di imprevista profondità) a cui è legato perché gli sia possibile continuare ad essere.
È nel noi che l’uomo trova il proprio significato ed è all’interno di questa comunità umana che risulta possibile definire la dignità e impegnarsi affinché il dolore e la speranza divengano un binomio di senso, anziché elementi contrastanti della condizione umana.
Lo sperimenta Z. e glielo testimonia anche l’Assistente che, invitandolo non solo a farsi curare ma a voler guarire, gli rammenta che:
Soltanto un uomo può dare forza ad un altro uomo quando è in pericolo.
La sfida del patire può concludersi con un ritorno di senso solo quando si compie nella riscoperta del proprio limite, nella fiducia nell’altro che cura ed accompagna. Il dolore si trasforma, allora, in prestazione, quindi in evento di sacrificio nel quale riscoprire i significati del proprio esistere e la comunione con l’altro, fonte di senso per noi stessi e per il nostro soffrire.