Come forse è noto a molti, i professionisti della salute, dopo il loro iter di preparazione universitario sono chiamati a sostenere un programma di aggiornamento continuo che permetta loro di consolidare e ampliare le proprie competenze. Qualche settimana fa, Rosella, un’infermiera di Casa Vidas, e Chicca, la psicologa del Day Hospice, hanno partecipato a un congresso sulla spiritualità. A Rosella ho chiesto di condividere con tutti noi la sua esperienza…
Siamo sul treno che ci porta a Padova io e la dottoressa Giuffra e intanto giriamo tra le mani il programma del congresso a cui dobbiamo partecipare. Già il titolo: ”La spiritualità di fronte al morire. Dal corpo malato alla salvezza. Contenuti, cura e aspetti relazionali nelle diverse culture”, fa pensare a qualcosa di molto impegnativo. Ci confrontiamo sul programma, che avevamo guardato a casa nei giorni precedenti, e ci pare che il convegno abbia dei contenuti molto vasti, forse fin troppo: psicologia, religioni, filosofia, medicina, cure palliative, meditazione, arte, cure alternative, ipnosi, esperienze di pre morte, sono gli argomenti trattati dai relatori del convegno.
Di fronte ad un simile programma mi sembra che le lezioni che seguo alla facoltà di teologia di Milano siano rassicuranti nonostante la loro difficoltà teorica.
Ma si sa: seguire un corso, e in modo particolare un corso sulla spiritualità, è sempre un po’ mettersi in gioco.
Alla fine arriviamo e l’inizio non è dei migliori: hanno diviso i partecipanti in due gruppi e noi siamo capitate nel gruppo che deve seguire la prima parte del congresso in videoconferenza. Questo inizio davanti a uno schermo non ci piace per niente e per giunta la videoconferenza ha dei problemi tecnici.
Dopo una decina di minuti però siamo già prese dal grande spessore del primo intervento, in cui il filosofo Emanuele Severino si confronta con degli esponenti della religione cattolica sull’errore della ragione nel considerare la morte come fine, e dimentichiamo la disorganizzazione del congresso (disorganizzazione che ci seguirà lungo tutti i tre giorni…).
Noi siamo lì perché ci interessa sapere cosa manca a quel paziente che ricordiamo, quel paziente che si è spento magari con i sintomi controllati, che non aveva problemi in famiglia e che pure, dopo che ha maturato la certezza che doveva morire, si è spento con negli occhi una domanda, come se mancasse qualcosa… Abbiamo visto sorgere quella domanda nei suoi occhi di giorno in giorno e abbiamo cercato di farla uscire tramite domande terra terra: ”Ha dolore?” – “È stanco?” – ”Vuole vedere i suoi parenti?” e poi la domanda più “umoristica”, se si pensa che è fatta ad una persona che sa di morire: “È preoccupato di qualcosa?”… quel qualcosa che è la mancanza di speranza e prospettive che hanno molti malati terminali.
Abbiamo curato e cullato il corpo, esplorato e anestetizzato i problemi psicologici del paziente, magari gli abbiamo risolto anche dei problemi pratici, ed eccolo lì a guardare nel nulla. ”Ho fatto questo e quest’altro, ho avuto una bellissima figlia ma ora questo dover morire toglie senso a tutto…”: così mi diceva un paziente.
Perché questa mancanza di senso? Si può dire che un paziente è morto bene se muore così?
Abbiamo partecipato ai tre giorni di convegno e abbiamo sentito molte campane… certo non abbiamo trovato il “senso finale” e certo non sapremo rispondere alla domande di senso dei pazienti.
Ma senz’altro è migliorata la nostra empatia verso di loro e abbiamo iniziato a percorrere una strada…
Vi auguro di iniziare a percorrerla anche voi per voi stessi e per i nostri pazienti.