Occuparsi di alimentazione nel fine vita significa mettere in campo tanti fattori diversi tra loro: la relazione tra il malato, i familiari e gli operatori sanitari, ma anche i ricordi, le speranze, i desideri e le possibilità di chi è arrivato al termine della propria vita. In altre parole, significa parlare di vita e di morte, che poi sono l’essenza dell’umanità.
Chi si occupa di cure palliative ha il compito di accompagnare le famiglie in un percorso di assistenza talvolta molto difficile, durante il quale emergono numerosi dubbi e la necessità di prendere decisioni difficili, sia sul piano affettivo sia su quello etico. Al medico spetta l’arduo compito di guidare il paziente e la sua famiglia nel percorso di accettazione della morte, intesa come evento esistenziale e come effetto collaterale della malattia di cui il paziente è affetto.
In questo processo, il morente prende via via le distanze da tutto ciò che è “terreno” fino a smettere di alimentarsi. Spesso questo passaggio viene vissuto in modo del tutto naturale dal paziente morente, mentre la famiglia fatica ad accettare l’inesorabile. È in questa fase che il medico gioca un ruolo fondamentale nell’aiutare i familiari a stravolgere il loro punto di vista: l’idea che racconta dell’onnipotenza dell’uomo ovvero “Se non mangia… muore!” deve lasciare gradualmente il posto alla consapevolezza che “Non mangia più perché sta morendo…”.
Dal punto di vista operativo è importante aiutare i familiari a riscoprire la bellezza dello stare insieme al loro caro condividendo il pasto piuttosto che obbligarlo a mangiare: condividere la fase di preparazione del pasto quando ciò è gradito dal paziente, privilegiare pasti piccoli e frequenti con alimenti ad elevato contenuto calorico, scegliere i cibi che in quel momento piacciono di più al malato, tenendo conto dei gusti che inevitabilmente cambiano nel fine vita, adattare e adattarsi agli orari e agli spazi che il paziente desidera, senza irrigidirsi su abitudini pregresse o su convenzioni anacronistiche, sono solo alcuni degli esempi che si possono fare per permettere la riscoperta del pasto come sigillo di una relazione.
Infine, il medico deve anche saper valorizzare le energie spese dal familiare per accontentare le richieste di cura – anche dal punto di vista alimentare – continuamente mutevoli del morente, ben conscio del fatto che l’alimentazione in quanto relazione non può e non deve ridursi alla nutrizione forzata.