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Prima di ogni altro discorso, è indispensabile fare una premessa, ossia che senz’altro il luogo dove ogni persona desidera stare quando è malata – e dove vorrebbe anche morire – è la propria casa. Casa nostra è un universo di oggetti, odori, ricordi – possiede quel calore che nessun altro luogo può dare, irriproducibile in un hospice, dove pure si possono portare con sé foto e oggetti con cui personalizzare la propria stanza.
Detto questo, l’hospice può ambire a riprodurre il clima familiare nella sensazione di cura e affetto che gli operatori possono dare. Non tanto, quindi, l’ambiente e la cura che se ne ha, la pulizia, l’ordine. La differenza sta, credo, nell’affetto che nasce dai gesti degli operatori. Rispetto a un ospedale, è diversa la proporzione tra operatori e pazienti e, anche in virtù di questo, cambia lo sguardo di chi lavora, la cura si rivolge alla persona e ai suoi bisogni in senso ampio, non soltanto quelli clinici, ma a quelli psicologici, emotivi, relazionali, spirituali, tutto quel che ci rende persona.
In hospice si sono fatte feste, celebrati matrimoni, sono nate amicizie, tra pazienti e tra caregiver (che possono restare a tempo illimitato, anche di notte). Ho visto pazienti che si davano appuntamento per fumare, chiacchierare o mangiare insieme. Raro ma accade.
Quando si ha una storia di malattia, anche lunga, in cui ci si è riferiti a uno specialista d’ospedale può accadere che, nel momento in cui viene annunciato che non c’è più possibilità di guarigione, la persona malata si senta abbandonata. L’inguaribilità viene vissuta come un’anticipazione della propria morte, una dimensione di solitudine e di bisogno disperanti.
Scoprire che la cura è ancora possibile – perché le persone sono sempre curabili, è il principio alla base delle cure palliative e c’è sempre qualche aspetto di noi che può ricevere attenzione -, a partire dalla possibilità di ascoltare, ascoltare i bisogni, dare voce alla solitudine, lasciare che la paura si esprima, scoprire che ci sono persone che non hanno timore di affrontare quegli argomenti scomodi che appartengono all’ultimo pezzo della vita – i brutti pensieri, la paura della morte, la fatica di abbandonare la vita e abbandonare le relazioni – è, credo, la forma più alta di cura, il contenitore da cui ogni altro gesto e atto concreto discende. Molte cose discendono da quella capacità di ascolto: somministrare terapie che tolgono il dolore, dare il giusto accudimento alle esigenze di un corpo che cambia.
Avere cura vuol dire anche aiutare i pazienti a prendere consapevolezza della loro malattia, della gravità della situazione, a volte della morte imminente, far emergere la loro autodeterminazione e quindi di condividere le scelte e il percorso di cura.
Accogliamo le loro paure e li tranquillizziamo, rassicurandoli che saremo con loro fino alla fine e che abbiamo mezzi e strumenti per aiutarli a superare la paura, a non far percepire quel sintomo, quel dolore, quella mancanza di fiato che loro temono in maniera particolare.
Ancora, rispetto alla famiglia: l’hospice risponde a situazioni cliniche particolarmente complesse ma più frequentemente offre risposta a famiglie che farebbero fatica ad assistere la persona malata a casa. Il ricovero significa smettere i panni da “infermiere”, per lasciare il carico dell’assistenza che comporta di somministrare i farmaci e provvedere all’accudimento della persona, che li affatica molto, non solo fisicamente ma anche per la responsabilità che implica.
L’ingresso in hospice permette di tornare ad essere figlio, marito, moglie, recuperare un ruolo solo affettivo.
Le persone che ho incontrato mi sono state maestre, nella professione e nella vita, nella capacità di offrirmi certi sguardi sulla vita, sulla fragilità dell’uomo e, quindi, sulla mia.
Non so quanto possa essere veloce un processo che comporta l’investimento di grosse risorse e una strategia complessa. La situazione in Italia è disomogenea per quanto riguarda l’offerta di cure palliative, con regioni dove il bisogno è coperto e articolato in risposte – la Lombardia, ad esempio – e altre dove l’offerta è carente quando non assente.
Vorrei rispondere ricordando un paziente molto speciale, Henry – morto lo scorso autunno, dopo un ricovero durato qualche mese.
È arrivato in hospice dopo un percorso di assistenza a domicilio ma, dato che viveva da solo, quando ha iniziato a peggiorare gli è stato proposto di farsi ricoverare. Sembrava che avesse davanti pochi giorni, un paio di settimane e, invece, si è stabilizzato e ripreso, al punto da potersi rimettere in piedi, con l’aiuto della fisioterapista e persino riprendere a lavorare a una grande passione. Era stato un contadino e aveva studiato l’importanza delle fasi lunari sulle coltivazioni, raccolto, semine, varietà di pianta. In hospice ha realizzato una piccola brochure, che abbiamo stampato, e organizzato una presentazione del lavoro, invitando qui amici e colleghi.
C’eravamo anche noi operatori e, in quell’occasione, commentando il tempo trascorso in hospice, ha detto che era stato uno dei più belli della sua vita.
Mi ha commosso tantissimo. In effetti, Henry è stato capace di riallacciare relazioni che aveva perso, relazioni importanti del passato, e di costruirne di nuove con altri pazienti. Alcuni non parlavano con nessuno e hanno parlato con lui e, dopo che è morto, abbiamo scoperto che avevano condiviso pensieri riguardo la loro morte – in qualche modo chiesto consiglio a lui, che vedevano così sereno, vien da dire brillante, nel senso proprio che brillava, di una luce pura e genuina. È riuscito a rendere bello questo pezzo di vita non solo per sé ma anche per gli altri che ci sono stati vicini. Un giorno abbiamo pranzato insieme, io, lui, Lia, la coordinatrice infermieristica di Casa VIDAS e un altro paziente, fuori sul terrazzo. Era caldo e assolato, abbiamo mangiato all’ombra degli ombrelloni. Mi è sembrato di stare al ristorante, quattro amici che fanno chiacchiere tranquille – senza accennare alla malattia.
Mi dicevo che alla fine è questo, no? mettiamo a disposizione dei nostri pazienti la nostra professionalità e la fatica è di metterci in gioco come persone, accettare le emozioni che vengono dalla relazione tra esseri umani è la parte difficile, ma, quando accade, non c’è niente di più alto che si possa ricevere.