Al centro di VIDAS, cuore pulsante e snodo essenziale, ci sono otto assistenti sociali. E a capo degli assistenti sociali c’è Alberto Grossi. Alberto è il più sornione degli storici VIDAS, accomunati dallo stesso sguardo disincantato e, insieme, di un’umanità inaggirabile. Occhi che ne hanno viste così tante – e orecchie tese, che hanno ascoltato migliaia di storie, decine ogni giorno.
Raccontare le case in cui opera VIDAS non può prescindere dal passare da loro, gli assistenti sociali, a cui arrivano le richieste per le assistenze.
E tutti ricevono una risposta in giornata – la mattina dopo, se la richiesta è arrivata in serata. Ogni anno arrivano tra le 2.700 e le 2.800 richieste, che si traducono in circa 2.400 assistenze (una parte resta inevasa perché la morte sopraggiunge in ospedale e prima delle dimissioni).
“Da quando seguivamo solo adulti con malattie oncologiche, si sono aggiunte nuove tipologie di malattie e risposte di setting, e un modello di assistenza del tutto inedito, rappresentato da pazienti pediatrici”. Gli assistenti sociali si sono via via specializzati, al crescere di VIDAS e della sua complessità. Attivano percorsi di assistenza, stabilendo a quale setting indirizzarle: domicilio, degenza, day hospice, continuando a verificarne l’idoneità e, all’occorrenza, modificandolo.
Ho chiesto ad Alberto come sono le case che vede. “Per quanto riguarda i pazienti adulti, nella maggior parte dei casi, sono adeguate all’assistenza di fine vita. Nonostante il momento non sia facile, ha anche dato maggiori risorse alle famiglie in termini di disponibilità di tempo grazie allo smart working. Capita lo stesso di entrare in case non idonee, senza abitabilità, sovraffollate, umide, cadenti. In questo momento seguiamo a domicilio un paziente di origine cinese che vive con la moglie in una sola stanza, di una quindicina di metri quadrati, con una cucina in comune con un altro nucleo familiare, più numeroso, che vive nell’altra parte, più grande, dell’appartamento. Non ottimale, ma ancora praticabile”.
In altri casi, l’hospice è la via obbligata – senza pensarci un attimo. “Abbiamo avuto una richiesta da un indirizzo conosciuto a Milano: viale Bligny 42, la Casbah [agli onori delle cronache per fatti di spaccio e delinquenza, il palazzo è popolato da una vasta comunità multietnica, ndr]. Il nostro paziente viveva in un monolocale con altri quattro o cinque abitanti, a dividersi una cucina a vista sull’unica stanza, fitta di letti a castello, e un bagno di un metro per due”.
L’affacciarsi delle cure palliative resta uno shock nella maggior parte dei casi: “un fulmine a ciel sereno è un’espressione ricorrente tra familiari che chiamano”, continua Alberto. “La più parte delle diagnosi configurano già una terminalità, alla quale si oppone la speranza di rallentare, se non arrestare, il decorso della malattia con le terapie messe in atto. Si spera”, anche se ci sono pochi argomenti razionali per coltivare la speranza. D’altronde, penso, ascoltando Alberto, che, quando arrivano a VIDAS, l’esito per queste famiglie è dato – ed è naturale per lui considerare illusoria la fiducia riposta fino a quel momento nei medici e nelle terapie.
Le richieste sono esplose negli ultimi 18-24 mesi (tra pandemia e postumi dati dalle varianti) e questo ha reso più lunghi i tempi di risposta che non superano comunque le 48-72 ore. Come prima, d’altra parte, VIDAS continua a prendere in carico anche pazienti con autonomia precaria, ovvero “destinati a un peggioramento e alla perdita dell’autosufficienza in tempi molto stretti. Nei pazienti adulti la sopravvivenza media a domicilio è attorno a 40 giorni. Un tempo in cui ragionevolmente una famiglia può farsi carico di una badante o chiedere un’aspettativa al lavoro. Se non è possibile e il paziente resta solo, o lo era già al momento della richiesta, c’è la degenza in hospice”.
Negli ultimi 40 giorni si lavora perché la qualità di vita sia la più alta possibile. Si dota la casa di ausili, si attivano figure complementari – non secondarie, solo seconde rispetto a quelle medico-sanitarie, che restano primarie. Operatori per l’igiene, fisioterapisti, psicologi.
Tutt’altro scenario quello dei pazienti pediatrici, la cui sopravvivenza è incommensurabilmente più lunga. Anche nei casi di malattie oncologiche, che si estendono tipicamente su un arco di mesi. Un dato di studio sulle cure palliative pediatriche fissa la durata media delle assistenze in 44 mesi. Si tratta di pazienti molto diversi, con malattie genetiche, gravi disabilità, quadri clinici complessi, che arrivano alle cure palliative a pochi mesi dalla nascita, mesi spesso trascorsi in un reparto ospedaliero, neonatologia, terapia intensiva neonatale. Spiega Sara Meriggi, che nel team dei magnifici otto segue i pazienti pediatrici: “Capita di incontrare famiglie che vivono in contesti non adatti a gestire la malattia dei loro piccoli – si interviene, attivando i servizi sociali territoriali, con cui lavoro quotidianamente. Ha senso allertare l’Aler per assegnare o riassegnare una casa popolare, così come le misure di sostegno economico, la B1, l’assegno di invalidità”.
Sara è l’interfaccia di circa 45 famiglie, la più parte assistite a casa, e cerca di conoscerle tutte di persona. “Mi affianco a loro e cerco di diventare un punto di riferimento, le aiuto a riconoscere i loro bisogni, di sostegno economico o organizzativo, che spesso non vengono fatti emergere perché quello clinico è preponderante e offusca il resto”.
In questa congiuntura sono stati tanti i tagli ai fondi sociali e spesso per le famiglie è difficile orientarsi tra domande, scadenze, uffici diversi. Alla base del suo lavoro c’è la costruzione di una relazione di fiducia. “È cruciale che ci si incontri, tengo molto a vederci di persona, anche se può accadere soltanto una volta. Le malattie nei bambini e ragazzi che curiamo hanno dei quadri clinici così incerti da rendere la prognosi una scommessa e, allora, ci si trova ad affiancare i genitori nell’accompagnamento di fine vita all’improvviso. Nel momento del commiato, noi e gli altri componenti dell’équipe diventiamo, ognuno in una vicinanza diversa, un punto di riferimento per mamma, papà e il resto della famiglia”.
Sara fa questo lavoro da diversi anni, a Roma prima di entrare in VIDAS, ormai circa tre anni fa. “Mi sono messa in gioco e ho capito che potevo gestire la delicatezza di questo ruolo. Guido le famiglie a capire quali risorse hanno e cerco di aiutarle veramente, senza sostituirmi a loro”.
Le chiedo qual è l’ultima casa dov’è stata. “Una casa popolare assegnata a una famiglia di sei persone, con genitori entrambi di origine straniera (e con due culture piuttosto distanti), il papà come unico lavoratore. La nostra paziente è la figlia maggiore, una ragazzina di circa 14 anni, allettata. L’appartamento è spazioso ma lo stabile ha barriere architettoniche insormontabili. Ci sono diversi gradini da fare, anche per raggiungere l’ascensore che è comunque troppo piccolo”. Come si interviene in questi casi? “Abbiamo richiesto di valutare una riassegnazione di abitazione all’Aler. Se la richiesta viene da VIDAS ha una forza maggiore, è già il punto di vista di un tecnico, rispetto a quella della famiglia. Speriamo”. Si spera – è umano. A volte a buon diritto, altre soltanto perché è una medicina, efficace almeno per l’anima.