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12.03.2013  |  Operatori

Le domande che arrivano improvvisamente

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Le domande talora arrivano improvvisamente, quando meno te le aspetti, ma quando – forse – il paziente intuisce che sei più vulnerabile e sa che sta per metterti con le spalle al muro ma che tu non puoi fuggire e devi rispondergli. Saper stare in quella relazione difficile, rende questa stessa autentica, profonda e unica. Spesso, un punto di svolta nell’assistenza per quel paziente. Per l’operatore è come essere sempre in trincea… e queste esperienze lasciano sempre dei segni. Così è stato per Nicoletta, infermiera palliativista.

Sono circa le 7 del mattino. È appena trascorsa una notte come tante. Si accendono le luci, arrivano le colleghe del cambio turno, nell’aria il profumo del primo caffè. Ci sediamo al tavolo per lo scambio delle consegne, brevi ma precise perché ho voglia di andare a casa a dormire. Stiamo finendo il briefing e la Susana mi avvisa che il Sig. Marco (nome di fantasia) si è appena svegliato con la nausea, chiede di fargli qualcosa perché ha paura di vomitare ancora. Sarebbe ormai ora di andare ma preferisco portargli la terapia così lo saluto. Ci vorrà un attimo.

“Ecco fatto, qualche minuto poi passerà” -gli dico-. “Ha bisogno di qualcos’altro? Altrimenti noi ci vediamo dopodomani”.

Senta, io mi sento morire…”.

”Perché mi dice così?” dico io, e lui: “Sento che va sempre peggio, non riesco a riprendermi. Mi dica, cosa ne pensa?”.

Penso che questa proprio non me l’aspettavo e adesso che gli dico? In questi momenti vorrei essere pronta, avere le parole giuste, l’espressione giusta, attenta al “non verbale”: vicina, ma non troppo. E lui che mi guarda con due occhi smarriti, impauriti. Mi dice ancora: “Voglio sapere la verità, così posso sistemare le cose di casa”.

“Capisco. La situazione è compromessa, stiamo cercando di controllare i sintomi, ma per la prognosi dovrebbe parlare con la dottoressa. Mi preoccupo io di avvisare le colleghe che vengano a parlare appena arriva”. Chiede inizialmente che non sia presente la moglie al colloquio… ”È così ansiosa”, dice lui. Poi ci pensa un attimo: “O magari mia moglie sa tutto e non mi dice niente”.

“Vi state proteggendo a vicenda, anche se credo che dopo 53 anni insieme non valga la pena di mentire adesso”.

“Già” – risponde lui – “non abbiamo mai avuto segreti”.
Mi congedo da lui con la promessa di vederci dopo 2 giorni. Dice lui: “Grazie e mi scusi se l’ho trattenuta. Grazie ancora del tempo che mi ha dedicato”.

Un sorriso e una carezza sulla mano spero lo rassicuri che il mio tempo non è tempo perso.

Torno al lavoro dopo 2 giorni e la prima cosa che guardo è che ci sia ancora la sua cartella. Bene, promessa mantenuta. Lo incontro durante il giro della terapia, mi appare più astenico, il volto provato dai sintomi, anche se riferisce siano meglio controllati con l’attuale terapia; mi parla comunque con un accenno di sorriso.

Il giorno dopo si rende necessario un ulteriore aumento di terapia, le condizioni sono peggiorate. Quando inizia il mio turno, la collega che termina quello precedente mi dice che al momento riposa, se si risveglia è stata impostata la terapia al bisogno. Il pomeriggio prosegue tranquillo. Verso le 19 Susana mi comunica che il paziente si sta risvegliando. Entro in stanza e la moglie mi accoglie in lacrime, il figlio mi dice che se il padre apre gli occhi lui non è in grado di affrontare il suo sguardo. Posiziono la flebo col sedativo, lenta. Dentro di me so cosa potrà accadere. La famiglia sembra pronta, anche se pronti non si è mai. Marco si tranquillizza.

Li lascio concordando di chiamarmi se avranno bisogno. Dopo circa mezz’ora il figlio viene ad avvisarmi che il padre è mancato, tranquillo nel sonno. La moglie scoppia a piangere, non riesce a parlare, cerco di tranquillizzarla, la abbraccio.

È così il nostro lavoro: rimani vicino alle persone in certi momenti difficili e poi devi girarti, far finta di niente e tornare alle tue abituali mansioni, che fatica!

Ma dentro l’emozione rimane, pronta ad uscire quando meno te l’aspetti.

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