Attilio Rossetti di professione fa il fotografo. Il 15 aprile di dodici anni fa accompagna il nipote per una visita nel reparto di oncologia pediatrica all’ospedale San Gerardo di Monza. Il bimbo s’è ammalato di leucemia. È un giorno terribile, di quelli che ti tolgono il respiro e ti fanno pensare a quanto possa essere crudele, ingiusta la sorte. È con questa pena infinita nell’animo che osserva il medico responsabile, Momcilo Jankovic, inginocchiarsi davanti al nipote. Inizia un dialogo, semplice e immediato, tra “pari”. Il medico parla al bimbo come se parlasse ad un adulto, ma ad altezza di fanciullo. Non ci sono diminutivi, vezzeggiativi, inutili storpiature, come pretende un malinteso vocabolario dell’infanzia. Quel medico usa parole semplici e chiare, ha la pazienza d’ascoltare. Sa che varcare quella soglia è motivo di immenso dolore, di paura, ma senza che mai e poi mai venga meno la speranza.
Ed è proprio la speranza che il fotografo Attilio decide di immortalare con l’attrezzo del suo mestiere. L’occhio della macchina fotografica vuole cogliere quella volontà di trattenere la vita, là dove essa pare sfuggire nel più odioso dei modi, carpendola a un bambino.
So bene che ci sarebbero mille altri modi per raccontare il convegno “Lo sguardo sulla sofferenza del bambino” organizzato dalla Fondazione Giancarlo Quarta e fortemente voluto dalla sua fondatrice Lucia Giudetti, quale ulteriore sforzo d’analisi e comprensione degli intricati rapporti legati alla relazione di cura. E quanto possano essere complessi tali nodi non è difficile da intuire se di mezzo ci sono vite appena sbocciate che per definizione parrebbero lontane dalla malattia.
Mille modi perché lungo l’itinerario della giornata si sono udite voci competenti, pronunciate dinnanzi a una platea di medici e addetti ai lavori, quanto mai attenta e appassionata, alla quale sono stati forniti mille stimoli. Voci di medici, psichiatrici, sociologi, si sono alternate a quelle di giornalisti, critici e storici dell’arte mentre gruppi di lavoro hanno partecipato all’elaborazione di una carta dei comportamenti.
Tuttavia il racconto del fotografo Attilio, così preferiamo chiamarlo, pronunciato con una voce tremante per l’emozione, ha toccato corde sensibili, ma soprattutto ha rappresentato una mirabile sintesi del significato profondo del convegno.
Il bimbo malato e la sofferenza che lo accompagna hanno assunto sembianze vere, autentiche, che la nostra società pare dimenticare quando si rivolge ai cosiddetti piccoli “sani”. Per qualche ora i nostri piccoli figli o nipoti hanno smesso d’ essere immortali per definizione, per trasformarsi in soggetti d’autentico interesse. Bambini che abbiamo smarrito o che, peggio, abbiamo costruito a nostro uso e consumo, che trasformiamo in adulti anche quando non possono esserlo, ai quali rubiamo sovente l’infanzia e il tempo del sogno, incapaci di capire quali tesori d’intelligenza e intuizione rechino in sé.
Un percorso compiuto senza presunzione, senza verità comportamentali in tasca, perché la sofferenza del bimbo, il suo dolore, le sue malattie sono vette da scalare. Ha ben ragione Borgna: se il dialogo tra malato e curante è per sua natura asimmetrico, tale asimmetria diventa abisso quando è un bimbo ad essere malato e tale abisso può essere colmato solo dalla grazia dell’intuizione e da un approccio di speranza.
Se c’è un sostantivo che ha trovato strada tra le mille e dotte analisi è proprio speranza. La speranza è in quei volti di bimbi del reparto oncologico del san Gerardo che il fotografo Attilio ci ha narrato in un libro. È nella testimonianza, toccante, di una delle giovani protagoniste di quell’umana avventura dinnanzi a una platea visibilmente toccata. Non un lieto fine da costruire per forza in un mondo in celluloide, ma la volontà di non chiudere mai la porta dinnanzi alla sofferenza e al dolore. Per dirla con il professor Borgna: senza speranza, anche quando le speranze vengono meno, non è possibile curare al meglio e reggere gli sguardi dei bimbi, le “finestre dell’anima” narrateci da Proust.