Michela l’avete conosciuta all’inizio del suo cammino come volontaria Vidas… Ora, dopo alcuni mesi, ci fa vivere e mi sento di dire rivivere emozioni provate noi tutti.
Inadeguatezza di fronte a tanto dolore, paura di sbagliare nei gesti, nelle parole, nei silenzi. Ci sono giorni difficili, ci sono incontri difficili, a volte è semplicemente “troppo”.
La prima volta in cui ho visto Irene sono rimasta per un momento senza fiato: ero entrata nella sua stanza in punta di piedi, non so mai quando busso e apro la porta di una stanza cosa e chi troverò, forse i parenti in visita, forse il paziente dorme, forse non ha voglia di essere disturbato… Invece Irene mi guardava, era immobile, il volto rivolto verso la porta da chissà quanto tempo, tutto il corpo adagiato sul letto e sui cuscini. In silenzio.
Sorrido, mi presento, mi avvicino. Domando se ha piacere che stia un po’ con lei. Ma mi rendo conto che Irene non può parlare. Emette solo dei suoni, disarticolati, acuti, sembrano quasi un urlo, eppure i suoi occhi parlano, mi guardano, si animano, mentre la voce continua a emettere quel rumore indistinto … Dopo poco le chiedo se posso esserle utile, magari con dell’acqua: “Ha sete?”. Fa un cenno di sì con la testa, lievissimo, gli occhi si spalancano, approfitto per correre dall’infermiere: “Acqua o acquagel?”. Lui capisce il mio vero interrogativo. “Non può parlare, riesce solo a urlare, è il suo unico modo di comunicare”.
Torno, quasi tranquillizzata da quelle parole, ho fretta di tornare da lei, non farle sentire che l’ho lasciata con una scusa. Inizio a darle l’acquagel, le fa piacere sembra. Poi mi fa capire che non ne vuole più.
Domando se le piace la musica, no non le va. Ogni tanto guarda la televisione? Fa cenno di no. Mi chiedo e le chiedo se vede fuori dalla finestra, scuote il capo. Mi abbasso alla sua altezza, metto la testa vicino alla sua, guardo verso il vetro e in effetti i disegni opachi impediscono di vedere fuori. Le chiedo se vorrebbe vedere fuori, c’è il sole. Mi fa cenno di no.Non ricordo le parole che ho usato, ricordo il disagio di cercare di interagire con delicatezza con una donna immobile nel letto che non poteva rispondermi con le parole.
Continuava a guardarmi, aveva gli occhi vivi, spalancati davanti a me. Credo di averle chiesto se si trovava bene, mi ha risposto con un cenno di sì, sì, rispondeva alle mie domande mantenendo gli occhi fissi nei miei e inclinando leggermente la testa.Credo di averle raccontato dei volontari, spiegato che ci alterniamo, che passiamo a fare compagnia, ad aiutare per quello che possiamo.
Poi ricordo di aver commentato i quadri appesi nella sua stanza, non c’era nulla di personale: non un oggetto, una foto, un vestito, nulla a cui appigliarmi. Così devo essermi interrogata sui fiori dei quadri appesi, credo di aver commentato, collegato al nome della stanza.Ma ero a disagio. Non sapevo cosa le avrebbe fatto piacere ascoltare.
So che dopo un po’ che parlavo lei ha distratto gli occhi. Li ha rivolti di fronte a sé. Ho domandato: “Preferisce che vada via? Vuole riposare un po’?”. Il suo cenno del capo era inequivocabile. Sì, preferiva che uscissi.
Così è finito il mio primo incontro con Irene.Durante il servizio del pasto ho accennato alla volontaria che fa il turno con me quanto mi era accaduto con Irene. “A volte succede”. Sì, a volte succede che i pazienti si stanchino o che semplicemente non abbiano più voglia di compagnia. Sentivo la rassicurazione nelle sue parole. Eppure non lenivano il mio disagio, chissà, chissà cosa avrei potuto dire o fare …
La settimana successiva sono entrata nella stanza di Irene con la voglia sincera di salutarla, di rivederla. Anche con un po’ di paura, al ricordo del mio disagio, della difficoltà nel relazionarmi con lei. Irene era rivolta nella stessa direzione della settimana prima, con tutto il corpo leggermente inclinato, lo sguardo e il volto rivolti verso la porta. La stanza era vuota, come la volta prima. Ma il suo corpo era più immobile, più inclinato.
Le ho chiesto se le faceva piacere che le tenessi la mano. Ha fatto cenno di sì con il capo. Ho preso quella mano morbida, calda, ferma, tra le mie.
Quel giorno ero stanchissima, avevo avuto una giornata faticosa, poche ore di sonno alle spalle, chissà credo sia per quello, per quella strana stanchezza che porta a allentare le difese, credo sia per tutte queste ragioni e altre che non so che quando Irene ha iniziato il suo suono disarticolato, guardandomi, le lacrime sono affiorate ai miei occhi: “Vorrei poter capire quello che mi sta dicendo ma non ci riesco” dicevo, mentre gli occhi diventavano lucidi. Una lacrima stava per scendere, ho mosso la mano per impedirle di scorrermi sulla guancia, ricordo lo sguardo di Irene, lentissimo, che seguiva la mia mano, arrivava sino agli occhi. E ricordo la dolcezza che ha riempito quei due grandi occhi, erano alla stessa altezza dei miei, e con la forza e la saggezza di chi vede la vita scorrere davanti a sé, con quella forza e dignità mi ha avvolto con un abbraccio guardandomi intensamente.
Il suo sguardo è diventato dolcissimo, la sua mano teneva la mia e io mi sentivo così piccola, impotente, inadeguata di fronte a quella sofferenza. Forse il mio piccolo dolore si è fuso con il suo, sarà stata quella lacrima, sarà stato l’abbandono con cui ho pronunciato quella frase, sarà stato lo sconforto che anziché ricacciare indietro insieme a parole vuote sono riuscita a far affiorare alla superficie, o sarà stato semplicemente l’incontro di due sguardi, finalmente senza difese e barriere … Grazie a tutto questo abbiamo potuto vivere un momento di vicinanza vera, intensa.
Ero seduta accanto a lei, con la mano nella sua, e non sentivo più il bisogno di parlare. Ci guardavamo, senza distogliere un momento lo sguardo, comunicando così. In perfetto silenzio. I suoi occhi mi sono sembrati grandi, dolci, verdi come le praterie e grigi-azzurri-cobalto come le sensazioni indistinte a cui non riuscivo a dare un nome.
Solo, una, chiarissima. Una profonda gratitudine per quello che ho ricevuto.