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10.10.2024  |  Operatori

Onorare i nostri pazienti

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Un’espressione cara a Rita Charon, madre della medicina narrativa, per il racconto di una storia di assistenza diventata tesi di master.

di Giada Perego
Infermiera a domicilio

Il mio approdo alle cure palliative, dalla terapia intensiva e dalla chi­rurgia maggiore, è stato con VIDAS, cinque anni fa. Ed è stata una rivo­luzione, nella ricchezza del lavoro in équipe, che mette in comune tanti sguardi ma permette di restare persone. Ogni volta che si varca una soglia e si entra nel mondo privato che è una casa. Proprio lì, nella sua intimità, ho incontrato Viviana [di cui abbiamo raccontato la storia qui].

L’abbiamo curata, una o due visite a settimana, per due anni. Un periodo eccezionalmente lungo, dilatato dall’intensità di attraver­sare la sua disillusione, con l’abbandono delle terapie attive, e dal mio coinvolgimento nell’assistere una giovane donna con figli, per il fatto di esserlo a mia volta. Una delle bellezze delle cure palliative sta nel guardare anche la mia fatica, senza perdermi, ma con­servando la stessa forza d’animo verso i pazienti.

Ho scelto l’incontro con Viviana per la mia tesi di fine master, un percorso in Medical Humanities e Medicina Narrativa dell’Università Bicocca, che prevedeva anche di mettere in scena un monologo, grazie alla guida e alla compe­tenza di Daniela Bianchi Airoldi di TeatrOfficina.

Alla discussione ho invitato Mirko, marito di Viviana, un uomo riservato che è stato, fino all’ultimo, presente. Abbiamo celebrato la straordinarietà di quel tempo sospeso, i tanti giorni accanto a una donna vitale, a tratti incapace di rassegnarsi, lo sguardo spietato a indagare la mia onestà e la stessa sua parabola di malattia, l’impotenza di fronte all’ineluttabilità del cancro, che la sfigurava e provocava crisi di disperazione e sommergeva di pianti irosi – tornata calma, tutto trasfigurava scherzando e cucinando, facendo i compiti con i bambini e scrivendo per loro diari consegnati dopo la sua morte.

Viviana, te lo dovevo. Persone come te mi ricordano che fare questo lavoro, il più bello del mondo, richiede una misura altis­sima, nei silenzi e nelle parole perché a chi si offre, sofferente, al tuo sguardo va restituita la sua dignità di persona. E il diritto di scegliere come vivere l’ultimo tratto di malattia – e di vita.

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