La scorsa settimana mi è capitato sott’occhio questo articolo di Vera Martinella nella Sezione cancro del Corriere della Sera. Il titolo e il sottotitolo da soli raccontano un mondo: “Cure palliative e fine vita: c’è ancora poca chiarezza fra medici e malati. Uno studio evidenzia la discrepanza tra quello che i pazienti desiderano (trascorrere se possibile le ultime settimane o giorni a casa) e quello che in realtà ricevono”. Inevitabile il rimando all’esperienza quotidiana.
Capita infatti spesso che pazienti o amici o conoscenti mi chiedano un consiglio su un trattamento chemioterapico proposto.
Non avendo spesso elementi a disposizione sufficienti per esprimere un parere, sento però sempre di dover dare consigli di carattere generale.
Rimando sempre a un dialogo – sguardo negli occhi – con l’oncologo.
Consiglio di chiedere con chiarezza quali siano gli obiettivi del trattamento: guarigione? Prolungamento della sopravvivenza? Di quanto? A che prezzo?
E spingo a esprimere con altrettanta fermezza i propri desideri.
So che non è facile – né per i pazienti né per i medici – stare dentro una relazione di questo tipo.
Sono certa però che solo così possa farsi strada una cultura nuova, rispettosa della libertà di ciascuno.
E immagino un futuro in cui parlare a voce alta della propria morte consenta di scegliere come e dove trascorrere un tempo che, ben speso, non è tempo di attesa di morte, ma tempo pieno di vita.