Assistere un malato, accompagnarlo nel declino fisico, convivere con le proprie emozioni, con il disagio di non sapergli stare accanto, anche quando tutto conferma la bontà della compagnia regalata.
Philip Roth, grandissimo scrittore americano, racconta in “Patrimonio”, la malattia del padre e il lento procedere verso la morte. Il libro è una testimonianza fedele, forse la migliore sintesi del lavoro quotidiano del caregiver.
Il padre, Herman, ha un tumore al cervello. Uomo vigoroso e brillante, cede giorno dopo giorno, a un male che lo riduce e aliena dalla realtà che amava. La vista diminuisce, il viso è deformato da una paralisi, il dolore e l’autonomia sono forze inversamente proporzionali, segnate dalla testarda caparbietà della malattia.
Non è possibile sintetizzare con compostezza un libro che racconta la morte del proprio padre. È, invece, avvincente e provocante identificare alcuni spunti che accomunano e raccontano la sfida sublime che caregiver e malato affrontano insieme. Comunicare la prognosi, riscoprire la compagnia, compenetrarsi nel dramma vissuto da chi non riconosce più come suo il proprio corpo, approfondire il lato oscuro, quasi sgradevole, dello stare accanto, lasciare la persona amata a un Mistero che attende.
Con la diagnosi ha inizio il percorso di consapevolezza e interiorizzazione della malattia. È il passo più difficile da compiere, quello più drammatico, in bilico tra il diritto di sapere e il limite del non saper dire. Sono gli attimi che fotografano l’inizio, le parole che condannano, la realtà da cui è impossibile fuggire.
Mi sedetti nella poltrona davanti a lui, col cuore in tumulto come se quello a cui stava per essere comunicato qualcosa di terribile fossi io. – Hai un problema serio, – esordio, – ma che si può affrontare. Hai un tumore nella testa (…). Avevo avuto l’intenzione, come il dottor Meyerson, di essere sincero e descriverlo com’era, cioè grande ma non ci riuscii (…). Era là seduto, impassibile, in attesa che continuasse. – Esercita una pressione sul nervo facciale, ed è questo che ha provocato la tua paralisi. Meyerson aveva detto che il tumore rivestiva il nervo facciale, ma io non potevo dire nemmeno questo (…). Era brutto scoprirsi incapace di credere alle proprie parole, ma non sapevo che altro dire.
Comunicare la diagnosi, anche in modo parziale, libera dalla responsabilità nei confronti dell’altro, ma non dalle paure che quelle parole provocano. Philip, ne era pervaso, non riuscendo a trovare “alcun contesto per dominare le paure”, crucciandosi sulla possibilità di far operare il padre, affliggendosi sulla sofferenza che quel tumore avrebbe provocato. Angosce comprensibili che, però, come ricorda l’amico medico di Philip, non possono non tenere conto di un dato: anche l’amore più grande non può impedire al padre di morire.
Ed è quest’amara considerazione a far comprendere al figlio addolorato che il tempo a disposizione è il tesoro più grande, che l’attenzione non si traduce in desiderio d’immortalità ma in cura quotidiana, che il dolore non è annichilimento ma condizione dell’uomo resa tollerabile dalla condivisione.
Da figlio, Philip, diventa caregiver, accompagnatore che ama, osserva la realtà, accetta il bisogno dell’altro e se ne fa carico. L’assistenza al malato, l’accettazione del limite, obbliga a immergersi nella realtà e a prender parte al dolore e alla decadenza dell’altro.
Non c’è nessun limite, purtroppo. Bellezza e ripugnanza sono talmente profonde, talmente nascoste nelle pieghe dei fatti, da doverle cogliere congiunte, abbracciate, come a volerne evidenziare il carattere figurativo che racconta di un uomo forte che non ce la fa più e di un figlio debole che trova la forza insospettabile di reggere il padre amato.
Si pulisce la merda del proprio padre perché dev’essere pulita, ma dopo averlo fatto tutto quello che resta da sentire lo senti come mai prima di allora (…). Una volta sfuggito al disgusto e ignorata la nausea e dominate quelle fobie che hanno acquistato la forza del tabù, c’è ancora tantissima vita da accogliere dentro di sé.
Il padre non è, però, un personaggio minore – mente che si spegne e corpo che cede. È un uomo vivo, con una sana e disperata voglia di vivere. Possiede una memoria potente e ne approfitta per raccontare al figlio, e a chiunque possa ascoltarlo, la sua storia. Dentro ci sono gli sforzi da emigrante, la famiglia, gli amici, il quartiere, i figli. Il racconto e la memoria sono gli strumenti che Herman lascia a Philip per continuare a vivere riconoscendo la tradizione e la storia famigliare come elementi primari del proprio essere.
Herman ricorda per definirsi, per continuare a esistere nel ricordo. Philip ascolta perché i ricordi sono parte del patrimonio che erediterà.
L’altra parte di patrimonio ottenuta è la realtà in cui ha sperimentato l’amore per il padre. Quando il padre non riuscirà più a controllare il proprio corpo, il figlio verificherà che la compagnia può essere sacrificio e la realtà è l’unico riferimento per dimostrare l’amore. Mentre lava il bagno imbrattato dall’incontinenza del padre, afferra il lato drammatico dell’amore.
Portai giù la federa puzzolente e la misi nel sacco della spazzatura che legai forte (…). E perché questo era giusto e come doveva essere non avrebbe potuto essermi più chiaro, ora che il lavoro era finito. Questo, dunque, era il mio patrimonio. E non perché pulire fosse il simbolo di qualche altra cosa, ma proprio perché non lo era, perché non era altro, né più né meno, della realtà vissuta che era.
Quello che succede dopo è inevitabile. La malattia che peggiora, il crollo definitivo, i dubbi etici connessi all’eutanasia, la morte. Rimane, però, l’essenziale. Il ricordo di una cammino comune, la condivisione di momenti intimi, la storia di un uomo che non si esaurisce. Rimangono la realtà, il fatto e l’impegno che Roth ci indica in poche e lapidarie parole:
non devi dimenticare nulla.