di Daniela Nava
Il privilegio di uno spazio di confronto che, settimana dopo settimana, è diventato un luogo intimo di dialogo e verità, vicinanza commossa e sfogo senza censura, suscettibile di essere volta a volta popolato del racconto di episodi ordinari come della narrazione di eventi privati e intimi.
Il laboratorio di medicina narrativa, aperto a tutte le funzioni e professioni VIDAS, sanitarie e non, si è articolato lungo un anno intero. Un anno di scoperta, che ha cambiato il mio sguardo, verso i colleghi e rispetto a quello che faccio. Ho fatto parte di uno dei due gruppi e ho chiesto a Chiara Tosini, psicologa del setting domiciliare, che era nell’altro, di raccontarmi della sua esperienza.
Il confronto è stato appassionante, il suo entusiasmo palpabile.
Le cure palliative sono un paradigma di cura che scardina tutto quello che lo specialismo dell’altra medicina – quella a cui siamo abituati e che consideriamo come l’unica visione possibile, nel nostro Occidente – si porta dietro, una forma più o meno velata di paternalismo dei curanti che, a volte, finiscono per sostituirsi ai loro assistiti.
Bello il termine ‘scardinare’ – quando entriamo in cure palliative facciamo l’ingresso nel territorio del sacro, naturalmente in una visione di spiritualità non confessionale, a cui si riferisce anche la definizione dell’OMS. La sacralità è il segno distintivo di questo punto di non ritorno della vita, quello in cui può non essere possibile rivedere le posizioni o cambiare le prospettive perché manca il tempo, e questo ne fa un momento unico, un po’ come la nascita. Entrare nella vita delle persone a questa altezza chiede di fare pulizia, creare un certo vuoto, liberarsi dagli orpelli e dalle sovrastrutture. Ripeto a me stessa Fermati, guarda e ascolta.
Se posso dare il giusto valore a quel che accade, mi lego a tutti gli attori che stanno intorno, il paziente e il suo caregiver, il medico, l’infermiere, l’assistente sociale (che ha reso per primo possibile che si creasse un legame) e si tende un filo tra noi, un filo rosso che ci si passa, che prescinde dal ruolo. ‘Medicina’ in questo senso diventa, per me, sinonimo di presenza e attenzione, senza gerarchie.
Due anni fa. Lavoravo in uno studio, come psicologa clinica ma sentivo la mancanza di qualcosa che ho trovato qui. È un buon punto di osservazione o, meglio, un cambio di prospettiva. Mi considero una psicologa della prospettiva ovvero: non possiamo cambiare le cose, però il modo in cui le viviamo, mangiamo, mordiamo, prendiamo a calci sì, quello sì.
Questo percorso di medicina narrativa ti insegna a sopportare quello che vivi – insegna a dire: è troppo. Bisogna riconoscere quanto il lavoro di palliativista ti metta alla prova perché accompagnare nell’ultimo miglio significa stare nell’incertezza, governare anche la propria difficoltà a sopportare la tensione di aspettare un evento drammatico e incombente – e certi incontri colpiscono più di altri.
Chiede anche di accettare quello che non si può cambiare, iniziare a parlare un’altra lingua – e qui torniamo alla magia della parola. Che scardina la paura e cambia la prospettiva, mostra qual è il linguaggio di Luca, i suoi modi, la sua gioia. Così accade il miracolo. Questo bambino è mancato due settimane fa e la mamma mi ha detto, ho vissuto i due anni più belli della mia vita. L’assistenza è questo. E non c’è protocollo perché ognuno di noi è diverso.
Due specie, certamente, ma imprescindibili l’una e l’altra perché, se non ci fossi tu che fai arrivare la filosofia di VIDAS, racconti quel che siamo, con tutti i mezzi possibili – tanto quanto chi raccoglie i fondi – noi come potremmo lavorare?
È accaduto tutte le volte che ho potuto recuperare il potere delle parole.
L’altro giorno ho fatto un primo accesso a casa di una signora e la figlia, che è il suo caregiver, mi dice di avere un grosso problema con le cure pal-liative, perché, Se arriva VIDAS, mi spiega, arriva la morte. Ho replicato: Immagino che possa averlo sentito ma non è così. Le cure palliative non allungano né accorciano la vita, diciamo che veniamo a prendere la sua mamma in braccio, evitandole tanta sofferenza. Le è piaciuta quest’idea –una buona comunicazione, un piccolo miracolo fatto di parole giuste.
La cosa meravigliosa è che noi entriamo nelle case. Negli attici del centro e in certe periferie dove devo fare attenzione dopo le 7 di sera, però si entra nello stesso modo, ci comportiamo nello stesso modo. È una forma di rispetto ma è, soprattutto, la possibilità di andare oltre.
Questo articolo è stato pubblicato sul Notiziario di VIDAS.
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