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18.11.2024  |  Operatori

La bellezza di parlare la stessa lingua

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In un’organizzazione in cui tra colleghi accade di non conoscersi più, l’incanto è di riconoscersi in un codice di valori e nella stessa tensione verso l’altro che è già sguardo di cura

di Daniela Nava

Il privilegio di uno spazio di confronto che, settimana dopo settimana, è diventato un luogo intimo di dialogo e verità, vicinanza commossa e sfogo senza censura, suscettibile di essere volta a volta popolato del racconto di episodi ordinari come della narrazione di eventi privati e intimi.

Il laboratorio di medicina narrativa, aperto a tutte le funzioni e professioni VIDAS, sanitarie e non, si è articolato lungo un anno intero. Un anno di scoperta, che ha cambiato il mio sguardo, verso i colleghi e rispetto a quello che faccio. Ho fatto parte di uno dei due gruppi e ho chiesto a Chiara Tosini, psicologa del setting domiciliare, che era nell’altro, di raccontarmi della sua esperienza.

Il confronto è stato appassionante, il suo entusiasmo palpabile.

Le cure palliative sono un paradigma di cura che scar­dina tutto quello che lo specialismo dell’altra medi­cina – quella a cui siamo abituati e che consideriamo come l’unica visione possibile, nel nostro Occidente – si porta dietro, una forma più o meno velata di pater­nalismo dei curanti che, a volte, finiscono per sostitu­irsi ai loro assistiti.

Bello il termine ‘scardinare’ – quando entriamo in cure palliative facciamo l’ingresso nel territorio del sacro, naturalmente in una visione di spiritualità non confes­sionale, a cui si riferisce anche la definizione dell’OMS. La sacralità è il segno distintivo di questo punto di non ritorno della vita, quello in cui può non essere possibile rivedere le posizioni o cambiare le prospettive perché manca il tempo, e questo ne fa un momento unico, un po’ come la nascita. Entrare nella vita delle persone a questa altezza chiede di fare pulizia, creare un certo vuoto, liberarsi dagli orpelli e dalle sovrastrutture. Ripeto a me stessa Fermati, guarda e ascolta.

Se posso dare il giusto valore a quel che accade, mi lego a tutti gli attori che stanno intorno, il paziente e il suo caregiver, il medico, l’infermiere, l’assistente sociale (che ha reso per primo possibile che si creasse un legame) e si tende un filo tra noi, un filo rosso che ci si passa, che prescinde dal ruolo. ‘Medicina’ in questo senso diventa, per me, sinonimo di presenza e atten­zione, senza gerarchie.

Quando sei approdata alle cure palliative?

Due anni fa. Lavoravo in uno studio, come psicologa clinica ma sentivo la mancanza di qualcosa che ho tro­vato qui. È un buon punto di osservazione o, meglio, un cambio di prospettiva. Mi considero una psicologa della prospettiva ovvero: non possiamo cambiare le cose, però il modo in cui le viviamo, mangiamo, mor­diamo, prendiamo a calci sì, quello sì.

Vero. Si può cambiare il modo in cui il mondo ci viene incontro.

Questo percorso di medicina narrativa ti insegna a sopportare quello che vivi – insegna a dire: è troppo. Bisogna riconoscere quanto il lavoro di palliativista ti metta alla prova perché accompagnare nell’ultimo miglio significa stare nell’incertezza, governare anche la propria diffi­coltà a sopportare la tensione di aspettare un evento drammatico e incombente – e certi incontri colpi­scono più di altri.

Il tuo lavoro ti mette a contatto con la malattia dei bam­bini. È un dolore che chiede di accettare l’ingiustizia.

Chiede anche di accettare quello che non si può cam­biare, iniziare a parlare un’altra lingua – e qui tor­niamo alla magia della parola. Che scardina la paura e cambia la prospettiva, mostra qual è il linguaggio di Luca, i suoi modi, la sua gioia. Così accade il mira­colo. Questo bambino è mancato due settimane fa e la mamma mi ha detto, ho vissuto i due anni più belli della mia vita. L’assistenza è questo. E non c’è proto­collo perché ognuno di noi è diverso.

Per me che sto in comunicazione è stata l’occasione di stare a confronto con i colleghi sanitari, individui di un’altra specie.

Due specie, certamente, ma imprescindibili l’una e l’altra perché, se non ci fossi tu che fai arrivare la filosofia di VIDAS, racconti quel che siamo, con tutti i mezzi possibili – tanto quanto chi raccoglie i fondi – noi come potremmo lavorare?

Qual è stato il momento in cui lo hai sentito di più, che eravamo parte della stessa organizzazione e che, al di là delle funzioni, c’era qualcosa che ci univa tutti insieme?

È accaduto tutte le volte che ho potuto recuperare il potere delle parole.

L’altro giorno ho fatto un primo accesso a casa di una signora e la figlia, che è il suo caregiver, mi dice di avere un grosso problema con le cure pal-liative, perché, Se arriva VIDAS, mi spiega, arriva la morte. Ho replicato: Immagino che possa averlo sentito ma non è così. Le cure palliative non allungano né accorciano la vita, diciamo che veniamo a prendere la sua mamma in brac­cio, evitandole tanta sofferenza. Le è piaciuta quest’idea –una buona comunicazione, un piccolo miracolo fatto di parole giuste.

Cos’altro ti piace del tuo lavoro?

La cosa meravigliosa è che noi entriamo nelle case. Negli attici del centro e in certe periferie dove devo fare attenzione dopo le 7 di sera, però si entra nello stesso modo, ci comportiamo nello stesso modo. È una forma di rispetto ma è, soprattutto, la possibilità di andare oltre.

Questo articolo è stato pubblicato sul Notiziario di VIDAS.
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