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01.07.2015  |  Cultura

“Puntini nell’Universo”: un viaggio nella vita per vivere anche la morte

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Sentimenti intensi rubati al cuore, lacrime ma anche sorrisi, ironia e leggerezza. E i temi ci sono tutti: l’accompagnamento al morente, le parole dette ma anche i silenzi vissuti, la rabbia, ma anche l’amore, il rifiuto ma anche la comprensione, l’identità e la ricerca di una spiegazione. Un viaggio nella vita per vivere anche la morte. Elena Salem, giornalista ed esperta di comunicazione, alla sua prima esperienza come scrittrice con il libro “Puntini nell’Universo” ti sorprende, anzi ti rapisce. Un viaggio nelle emozioni di personaggi, anzi no di persone vere che ti accompagnano in storie e racconti intensi che tanto hanno di morte, ma altrettanto parlano di vita. Lo sottolinea lo stesso Umberto Veronesi nella prefazione del libro “Il lettore sarà condotto con grazia a riflettere. E a pensare a come vita e morte siano naturalmente intrecciate l’una all’altra.” Tracce di vita quotidiana, ma anche straordinaria narrate con delicato rispetto.

Puntini nell'Universo
Come quella di Gemma e Joëlle madre e figlia in un racconto di commovente intensità dove la domanda di una mamma (Gemma) è la più banale ma anche la più tragicamente vera: perché Dio non si prende lei al posto della sua bambina?

“Mamma non so quanto tempo mi rimanga” (…) Non doveva piangere. Almeno, non in quel momento. (…) Gemma batté il pugno sul comodino “Non è vero” (…) “Ci sono delle cure sperimentali…”. “Mamma basta!” Protestò la figlia “Non serve a niente fingere. Così non mi aiuti” Non c’era disperazione nella sua voce. Joëlle stava semplicemente chiedendo di smettere di recitare. In fondo si trattava di cambiarsi d’abito. Scendere dai gradini del palco. Attraversare la platea. Lasciare il teatro.

E la scena, il teatro, la fama, un’identità costruita in anni intensi di una meravigliosa carriera è il racconto di Eugénie grande attrice teatrale che non riesce più a distinguersi dalla donna “reale”, che si ammala e che fugge. Fugge da se stessa, fugge dalla malattia ma anche da un marito (Edward) “impreparato”, che lei stessa forse non conosce e al quale non da alcuna possibilità di starle accanto. Fugge dalla paura di deludere.

Eugénie Riveblanche si inchinò davanti al pubblico in delirio “Grazie!”. Rose rosse venivano lanciate sul palco, come frecce di Cupido. “Ho qualcosa da annunciarvi”. (…) “Abbandono il palcoscenico perché sono malata”. “I medici mi hanno diagnosticato un cancro che non lascia molte speranze”. “Vi chiederete perché ho deciso di parlare proprio a voi, questa sera, della mia malattia”. (…) “Il teatro è stato la mia sola realtà”. Spense una lacrima con le dita. “Siete voi la mia famiglia. Ho amato il pubblico più di quanto abbia amato me stessa. Ho vissuto per il mio pubblico. Recitare è stata la sola cosa vera che io abbia saputo fare nella vita.

È il comandante Minetti, dall’alto dei uno dei palazzi di vetro della Milano da bere, che ci riporta al titolo del libro. In un dialogo piena di ironia, sottili sottointesi, battute tristi e gioiose gambe a penzoloni sul cornicione a colloquio con un potenziale suicida il ragioniere Montecimino abbandonato da moglie e figlia. Storie che si intrecciano in una avvolgente sceneggiatura. E anche qui la vita viaggia sul filo, l’ultimo.

“Vuole offrirmi una sigaretta?” (…) Minetti cercò il pacchetto nella tasca laterale della giacca. (…) Montecimino aspirò la prima boccata. (…) Poi rimase in silenzio ad assaporare il sapore del tabacco. “Mi ha guardato bene?” chiese ad un tratto. Minetti non rispose. “Sono un puntino” disse. “Un puntino?”. “Un puntino nell’universo”. “Cosa significa?” (…) “Che sono una di quelle persone che attraversano la vita senza lasciare traccia di sé. Una nullità…”. (…) Minetti lo prese per un braccio. “Si sporga!” ordinò. (…)”Guardi giù e mi dica cosa vede”. (…) “Persone intorno all’edificio”. (…) “Come le appaiono dall’alto?”. Lui scosse la testa. “Non lo soooooo…”. Il comandante gli storse ancora di più il braccio. “Puntini” sbottò il ragioniere “Sembrano tutti puntini!”

Al lettore la libertà di scegliere come interpretare l’affermazione.

C’è sempre il preferito, che sia un personaggio di un romanzo o, come in questo caso, uno dei dieci racconti, c’è sempre quello in cui ti immedesimi, in cui ritrovi immagini o descrizioni a te più famigliari o semplicemente ti affezioni. E per me, lo confesso, è stato il racconto di Vanessa e Gregorio, che inizia con l’amore, l’amore con la A maiuscola sotto tutti i profili. L’emozione di scoprirsi ancora innamorati, mente e corpo. L’emozione di Gregorio che ammira il corpo della moglie, il desiderio di lei come fosse il primo giorno “la donna di cui si era innamorato a prima vista diciannove anni prima in Versilia” . Nel racconto c’è tutto: la vita, la malattia, la morte ma c’è anche la relazione nella coppia, con i figli e tra i figli, la difficoltà di comunicare una malattia inguaribile, la forza di una compagna, il dire la verità.

“Ti ricordi la quercia nel giardino dei tuoi genitori? Sembrava così forte. Eppure, in un inverno troppo rigido, è morta, nessuno se l’aspettava” (…) “La separazione è difficile” gli sussurrò “Ma io ti porterò per sempre con me, nei miei ricordi, dovunque sarò. Anche tu conservami nei tuoi”.

Credo che ognuno di noi si porti qualcuno con sé, qualcuno che non vede più ma non per questo smette di amare. E credo che le tante persone che Vidas incontra nell’ultimo tratto della vita abbiano lasciato una storia, un ricordo magari di un solo sguardo, di un sorriso. Tanti puntini sì, ma unici e luminosi.

Grazie a Elena Salem che con grande capacità narrativa ce li ha ricordati, li porteremo con noi.
A voi buona lettura.

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