Qualche indizio, per iniziare. Nella pratica clinica sapiente, e fondamentale per l’assistenza a chi ha poco tempo da vivere, rimangono a volte zone non del tutto esplorate: spesso sono quelle che riguardano le emozioni del malato. Ma non solo le sue: sono sentimenti che proviamo tutti noi. Ansia, disperazione, angoscia, confidenza, paura, speranza – e tantissime altre – attraversano la nostra vita. Non appartengono soltanto al morente. Dunque, non sono da trattarsi necessariamente come patologie. Chi vive i suoi giorni prima della fine può sperimentare una gamma molto vasta di emozioni.
Allora proviamo ad allentare un “nodo”. Proviamo cioè a pensare a un collegamento possibile tra la prassi strettamente clinica – che medici, infermieri, fisioterapisti, ciascuno con la propria grande competenza, forniscono con tanta dedizione – e un ascolto diverso del malato.
Senza presunzione di alcun tipo, tento un percorso articolato in musica, immagini e parole. La scelta è per forza di cose del tutto personale, ma l’invito è quello di lasciarvi andare il più possibile a libere associazioni, e a lasciarvi comunque “trafficare” da quello che tutto ciò vi suggerirà.
INDIZI, niente di più. Incontrerete spezzoni di musiche conosciute, altre meno; di quelle cantate in lingue straniere non ho voluto dare la traduzione integrale: per ognuna leggerete poche parole, spero quelle che servano a catturare il senso. Incontrerete dipinti che vanno dal 1400 all’altro ieri. E brani da testi di poesia, psicoanalisi, filosofia, letteratura che, attraverso lo ‘spirituale’, declinano il Cristianesimo, l’Islam, l’Ebraismo, il Tao, la Laicità.
Ora, per iniziare, e prima di passare agli argomenti ‘emozionali’, subito una musica, e poi un testo breve, per entrare direttamente al cuore dell’ascolto. Quello del malato.
See me, feel me
touch me, heal me(Guardami, sentimi, toccami, guariscimi)
The Who
Ascolta See me, Feel me
Non mi è possibile cogliere il senso, la dimensione anche clinica, di una sintomatologia (psicotica e non-psicotica) se non ascoltando, e decifrando, i modi infiniti in cui ogni paziente rivive il suo dolore e le sue sofferenze, le sue angosce e la sua disperazione. I sintomi, questi sintomi, cambiano del resto nei loro contenuti e nella loro forma nella misura in cui ci confrontiamo con essi (con le persone che li manifestano) in un atteggiamento di disponibilità dialogica e di partecipazione emozionale, e non invece in un atteggiamento
di neutralità e freddezza; di distanza psicologica e umana. Cosa, questa, di ovvia grande importanza non solo teorica ma anche terapeutica. Ci sono, cioè, pazienti che delirano in alcuni contesti ambientali (ospedalieri, o familiari) e che non delirano più quando sono in altri ambienti: come conseguenza dei modelli di comportamento e di contatto emozionale che si hanno negli uni e negli altri ambienti. Ci sono pazienti che delirano, o allucinano, dinanzi ad alcuni atteggiamenti medici, e che non lo fanno dinanzi ad altri. Come mai questo accada, non è difficile da capire: la presenza, o la mancanza, di disponibilità dialogica e di immedesimazione trascina con sé queste diverse risposte: queste differenze radicali di espressione sintomatologica e di comportamento. Basta qualche volta ascoltare, consentire a ogni paziente di esprimere le sue angosce e le sue tristezze, perché i sintomi si abbiano ad attenuare e a cambiare.
EUGENIO BORGNA, Noi siamo un colloquio, Feltrinelli, 1999
Constantin Brancusi (1876-1956)
Il bacio (1907)
Se si accetta di vivere Giobbe e di stare con il paziente dentro la domanda, abbiamo da attraversare insieme silenzi dell’anima e spazi dell’angoscia, territori desertificati dal dolore, il panico del nulla che opprime, un comune sentimento di impotenza, una comune notte da passare. L’unica speranza è che dopo la notte ci sia un presagio d’alba.
LELLA RAVASI BELLOCCHIO, La lunga attesa dell’angelo, Raffaello Cortina, 1992