È successo che questa primavera un collega e amico da sempre in prima linea nella lotta contro il fumo abbia condiviso su un social network la copertina di “Quando il respiro si fa aria” di Paul Kalanithi, creando in me una certa curiosità.
È accaduto poi che la mattina dopo si sia presentato in hospice l’Ing. De Santis, storico amico del Vidas, con un cospicuo numero di copie proprio di quel libro destinate agli operatori. Una delle copie era per me.
Inutile dire che la coincidenza mi ha spinta a divorare il libro. Ne è valsa la pena.
Perché “questo libro comunica l’urgenza di una corsa contro il tempo fatta da chi ha cose importanti da dire”: è il racconto di Paul, promettente neurochirurgo la cui vita prende una svolta inattesa, trasformandolo da medico a paziente inguaribile nel volgere di breve tempo.
Ed è proprio questo brusco capovolgimento che getta una nuova luce anche sul senso della professione.
Eppure avevo imparato qualcosa, qualcosa che non si trova in Ippocrate, Mosè Maimonide o Osler: il compito del medico non è respingere la morte o riconsegnare i pazienti alla loro vecchia vita, ma prendere tra le braccia i pazienti e i loro familiari, le cui vite si sono disintegrate, e lavorare finché non saranno in grado di risollevarsi e affrontare la loro esistenza, trovandole un senso.
Non c’è nessun autocompiacimento in Paul, anzi, c’è una grande voglia di vivere, di lottare, di esserci, fino a progettare la paternità e a vedere nascere la piccola Cady cui il libro è dedicato. C’è la speranza che nemmeno la conoscenza scientifica riesce a mettere a tacere perché
anche i medici evidentemente hanno bisogno di sperare.