In questo articolo ti presentiamo alcune delle migliori e infinite sfaccettature dell’artista: da scrittore di racconti minimalisti e traboccanti di realtà, a poeta che rivela sé stesso con passione e introspezione. Ti proponiamo dunque cinque bellissime poesie di Raymond Carver: “Una pacchia”, “Cosa ha detto il dottore”, “Abbi cura”, “Ultimo frammento” e la parte conclusiva di “In Svizzera”. Si tratta di tesori che raccontano la rinascita di un uomo che sopravvive all’alcolismo, si innamora, scopre la malattia e si congeda dal mondo.
Indice
Raymond Clevie Carver Jr. è stato uno scrittore, poeta e saggista nato nel 1938 a Clatskanie, negli Stati Uniti, morto nel 1988 a Port Angeles. La vita di Carver è la rappresentazione di un poeta che ama la realtà e che nella realtà trova gli spunti per sognare, desiderare, gioire e soffrire. Le sue poesie sono impregnate dell’umanità di chi affronta ogni avvenimento con l’aspirazione di conoscersi meglio.
L’amore, la felicità, la quotidianità, la malattia, la sofferenza e, infine, la morte, sono tutti aspetti interconnessi del percorso umano. Non è utile ignorarne qualcuno, perché solo se considerati nella loro logicità unitaria ci permettono di codificare un pezzetto di mistero, indispensabile per sostenerci nella ricerca e nel sentimento di infinito che anima il nostro cuore e infiamma le nostre menti.
Non c’è altra parola. Perché proprio quello è stata. Una pacchia.
Una pacchia, questi ultimi dieci anni.
Vivo, sobrio, ha lavorato, ha amato,
riamato, una brava donna. Undici anni
fa gli avevano detto che aveva solo sei mesi da vivere
se continuava così. E non poteva che
peggiorare. Così cambiò vita,
in qualche modo. Smise di bere! E per il resto?
Dopo, fu tutta una pacchia, ogni minuto,
fino a quando e anche quando gli dissero che,
be’, c’era qualcosa che non andava e qualcosa
che gli cresceva dentro la testa. “Non piangete per me”,
disse ai suoi amici. “Sono un uomo fortunato.
Ho campato dieci anni di più di quanto io o chiunque altro
si aspettasse. Una vera pacchia. Non ve lo scordate.
“Una pacchia” è la poesia della rivincita. In questa opera il poeta ci dice che se vivere è una pacchia, morire non è più solo una disgrazia, perché entrambe, vita e morte, si spiegano a vicenda. Vivere è una pacchia quando non ti sfugge più la bellezza intravista, quando trovi la traccia che regala alla tua vita l’incanto che la giustifica, nei momenti di gioia e in quelli del dolore. È una pacchia, perché la speranza non reclama immortalità terrena, ma tempo e spazio necessari per considerare la quotidianità bene prezioso, tesoro da spendere senza parsimonia.
Ha detto che la situazione non è buona
ha detto che anzi è brutta, molto brutta
ha detto ne ho contati trentadue su un solo polmone
prima di smettere di contarli
allora io ho detto meno male
non vorrei sapere quanti altri ce ne stanno oltre a quelli
e lui ha detto lei è religioso s’inginocchia
nelle radure del bosco si lascia andare a invocare aiuto
quando arriva a una cascata
con gli spruzzi che le colpiscono il viso e le braccia
si ferma a chiedere comprensione in momenti del genere
e io ho detto non ancora
ma intendo cominciare a farlo subito
lui ha detto mi dispiace veramente
ha detto vorrei tanto darle notizie di tutto un altro genere
e io ho detto Amen
e lui ha detto qualche altra cosa
che non ho capito e non sapendo cos’altro fare
siccome non volevo che lui dovesse ripeterla
e io digerire pure quella
me lo sono guardato
per un po’ e lui ha guardato me
e a quel punto sono saltato su e
ho stretto la mano di quest’uomo che mi aveva appena dato
qualcosa che nessuno al mondo mi ha mai dato prima
mi sa che l’ho pure ringraziato
tanta è la forza dell’abitudine.
Nella prima poesia colui che era stato dato per spacciato è sopravvissuto. Quando, però, il dramma si realizza e la malattia prende nuovamente il sopravvento, Carver, di fronte al medico che in maniera impacciata e inadeguata prova a offrirgli conforto, trattiene l’immagine di una fine inevitabile, non negando la paura e l’inadeguatezza di fronte allo spettro della morte.
Raffigura due uomini, un medico e un paziente, inermi di fronte ad un qualcosa notevolmente più grande di loro. E allora, di fronte all’incomprensibile, al futuro che di colpo svanisce, non si può far altro che stringere la mano dell’uomo che ti sta dando qualcosa che nessun altro ti ha mai dato prima. L’uomo che comunica la sentenza definitiva. Ritrovare in sé stessi e negli amati le forze per sostenere l’ultimo tratto.
Dalla finestra la vedo chinarsi sulle rose
reggendole vicino al fiore per non
pungersi le dita. Con l’altra mano taglia, si ferma e
poi taglia ancora, più sola al mondo
di quanto mi sia mai reso conto. Non alzerà
lo sguardo, non subito. È sola
con le rose e con qualcosa che riesco solo a pensare, ma non
a dire. So bene come si chiamano quei cespugli
regalatici per le nostre nozze tardive: Ama, Onora e Abbi Cura…
è quest’ultima la rosa che all’improvviso mi porge, dopo
essere entrata in casa tra uno sguardo e l’altro. Ci affondo
il naso, ne aspiro la dolcezza, lascio che mi s’attacchi addosso – profumo
di promessa, di tesoro. Le prendo il polso perché mi venga più vicina,
i suoi occhi verdi come muschio di fiume. E poi la chiamo, contro
quel che avverrà: moglie, finché posso, finché il mio respiro, un petalo
affannato dietro l’altro, riesce ancora a raggiungerla.
L’incedere della malattia non sconfigge il desiderio di bellezza e di affezione del malato. L’uomo caduto, che accetta la sua sentenza, ama, desidera e spera. In “Abbi cura”, la poesia della resistenza, emerge il desiderio di una temporaneità eterna, non un gioco di parole, bensì espressione di un sentimento di totalità destinato alla donna amata, ai figli e a tutte le persone coinvolte nell’esistenza di un essere umano. Nel promettere e desiderare amore fino all’ultimo respiro, l’uomo identifica la sua sopravvivenza con il legame affettivo che perdura. Si realizza così quella eternità affettiva che concede speranza e accettazione positiva.
Anche in questa poesia, Carver non chiede tempo, ma coraggio per affrontare ciò che muta contro il suo volere. Nel concludersi di un’esistenza ci sono persone e affetti che perdurano. Esistere, proporre con decisione il proprio essere persona che ama e che, umanamente, avverte la sofferenza di un addio ormai certo. Comunicare il sentimento d’amore, che è rappresentazione di una bellezza che non si lascia sconfiggere dalle avversità, equivale ad esistere. Nonostante tutto, finché l’ultimo petalo di vita affannato lo permetterà.
E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.
Carver va oltre alla poesia della resistenza: vuole lasciare qualcosa che superi la soggettività dei sentimenti. Desidera donare una testimonianza che orienti coloro che rimangono. La traccia dell’amore e la domanda di senso sono i lasciti che accomunano ogni uomo. Nella poesia del dono si associano definitivamente l’amore e la realizzazione dell’uomo che affronta la fine con coscienza e rappacificazione. Sentirsi amati, portare con sé nell’indeterminato il calore dell’affetto, la magia della tenerezza.
Tutti noi, tutti, tutti,
cerchiamo di salvare
le nostre anime immortali,
certi modi a quanto pare sono più
complicati e misteriosi di altri.
Ci stiamo divertendo qui.
Ma speriamo
che ci sarà rivelato tutto, presto.
Spesso si considera la poesia ”Ultimo frammento” il messaggio finale di Carver. Tuttavia, il suo testamento poetico è da rintracciare nelle bellissime parole conclusive di “In Svizzera”, in cui si riconosce tutto il suo percorso. Possiamo infatti definirla la poesia della rinascita: pochi versi che custodiscono i desideri di comprensione e infinito che animano ogni essere umano.